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Insegnare ad imparare è possibile!

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Ed eccomi di nuovo qui, travolta dalla ripresa e dai nuovi ritmi ma felice, per davvero.

Non so se succede anche a voi, ma ogni anno pochi giorni prima di rientrare in classe  un’ansia sottile si insinua nella mia mente e mi tiene persino sveglia la notte. Non so proprio per quale motivo questo strano fenomeno si verifichi puntualmente ogni anno ma so, invece, che non appena entro in classe e vedo le facce sorridenti dei ragazzi arriva la gioia e penso: che bello rivedervi! 

Conoscere i “piccoli” poi è stupendo. Sguardi timorosi ti scrutano cercando di capire chi sei ma non appena cominci a “raccontare” si trasformano in sorrisi pieni di speranza e aspettativa e io penso:  ma che bello conoscervi!

Mi ritengo fortunata, davvero. Ogni anno più vecchia, più lenta e più stanca ma grata perché amo i ragazzi e amo insegnare. Sono sicura che sia così anche per voi, cari amici.

L’imparare ad imparare è stato il focus di tutte le mie letture estive e così ho dedicato le prime lezioni a raccontare ai ragazzi come fare ad imparare in modo più efficace. Ecco qui la prima.

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Prima di cominciare ci tengo a dirvi che tutte le cose che sto per raccontarvi potete trovarle in questo bellissimo libro scritto da due americani, una docente di ingegneria esperta di apprendimento e un neuroscienziato: Barbara Oakley e Terry Seinowski.

Se masticate un po’ di inglese lo troverete fantastico, ma intanto proverò a raccontarvi quali preziosi consigli la scienza è in grado di dare per avere successo a scuola senza passare tutto il tempo a studiare. Non dico che sarà facile e molto dipenderà da voi ma vale la pena provare, no?

Cosa significa imparare per voi? Cosa fate quando volete o dovete imparare qualcosa?

Forse state attenti in classe durante la spiegazione, leggete con attenzione il libro e poi fate gli esercizi che vi vengono assegnati.

Funziona sempre il vostro sistema? Cosa fate quando invece non riuscite a capire qualcosa? Vi capita mai di arrabbiarvi e arrendervi?

Arrabbiarsi, come ben sapete, serve a poco. Invece, vi basterà comprendere alcune cose sul funzionamento del cervello e potrete imparare molto più semplicemente e con meno frustrazione. Non ci credete?

Voglio dirvi una cosa che forse vi sembrerà un po’ strana.

La scienza ha dimostrato che per riuscire a pensare in modo più chiaro quando si sta studiando qualcosa o si cerca di risolvere un problema difficile, a volte, abbiamo bisogno di perdere la concentrazione.

Aspetta… cosa?

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No, non sono impazzita! Avete sentito bene!

I neuroscienziati, ossia gli scienziati che studiano come funziona il cervello,  hanno capito che il nostro cervello lavora sostanzialmente in due modi diversi: in modo focalizzato, cioè concentrato, e in modo diffuso e che entrambe le modalità sono molto importanti per l’apprendimento.

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Cosa vuol dire per il nostro cervello essere in modalità focalizzata?

Significa semplicemente che in quel momento state prestando grande attenzione a ciò  che state cercando di imparare o di capire. Pensate in modalità focalizzata quando state risolvendo un problema di matematica, mentre imparate nuove parole in una lingua straniera o cercate di applicare una nuova regola di grammatica, mentre guardate e ascoltate l’insegnante in classe ma anche mentre giocate a un videogame, o fate un puzzle.

Pensare in modo focalizzato attiva parti specifiche del cervello a seconda di ciò che si sta facendo. Risolvere un problema di matematica, ad esempio, attiva parti del cervello diverse da quelle usate quando si parla in una lingua straniera.

Quando dovete imparare qualcosa di nuovo, quindi, per prima cosa dovete imparare a concentrarvi intensamente per attivare le parti del cervello che vi servono in modo che il processo di apprendimento abbia inizio.

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Il cervello entra in modalità diffusa quando non state pensando a niente di particolare, quando sognate ad occhi aperti o scarabocchiate su un foglio per divertirvi. In modalità diffusa, la mente è rilassata e libera e utilizza parti diverse del cervello rispetto a quando, invece, vi state concentrando su qualcosa.

Quando il nostro cervello è in modalità diffusa accede più facilmente a risorse come l’intuizione in cui i pezzi di informazione analizzati in precedenza  in modo logico e sequenziale vengono in qualche modo riorganizzati in modo più creativo finendo spesso per fornirci una nuova prospettiva per la soluzione del problema che prima non riuscivamo a trovare.

Sembra anche  che la creatività salti fuori proprio quando siamo in modalità diffusa.

Avete presente i flipper?

Se ricordate, il gioco funziona così: si tira indietro un pistone, lo si lascia andare e una pallina che viene lanciata fuori rimbalza tutt’intorno, contro dei bersagli, accumulando punti.

Secondo Barbara Oakley pensare ad un flipper può aiutare a capire meglio come funzionano le due modalità in cui lavora il cervello.

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E’ come se nel nostro cervello ci fossero due tipi diversi di flipper: uno in cui i bersagli che la pallina deve colpire sono molto vicini tra loro, l’altro in cui i bersagli sono invece distanti. La struttura del flipper con i bersagli ravvicinati simula i nostri pensieri quando siamo molto concentrati su qualcosa, mentre la struttura del flipper con bersagli distanziati tra loro riproduce bene la modalità diffusa in cui i pensieri tracciano piste più ampie colpendo meno bersagli lungo il tragitto.

Quando si sta imparando qualcosa di nuovo, ad esempio state imparando ad usare una formula matematica per la prima volta, e siete in modalità focalizzata la vostra pallina-pensiero traccia delle piste ravvicinate e in un’area ristretta. Ogni volta che utilizzerete nuovamente quella formula che avete imparato i vostri pensieri si muoveranno lungo le stesse piste che sono state tracciate nel vostro cervello la prima volta.

Il nostro cervello è in grado di concentrarsi sui dettagli, ossia essere in modalità focalizzata, oppure può vedere il quadro d’insieme, avere una visione più ampia delle cose, ossia essere in modalità diffusa.

La scienza ci dice, però, che se si è in modalità focalizzata non si può essere in modalità diffusa e viceversa: sembra che le due modalità non possano coesistere contemporaneamente. È come osservare una moneta: puoi vederne una faccia o l’altra, ma mai entrambe contemporaneamente. Il fatto di essere in una delle due modalità, quindi, sembra che limiti la possibilità di accedere all’altra.

Se passare da una modalità all’altra è così importante nell’apprendimento, come si fa a farlo?

In realtà, entrare in modalità focalizzata è abbastanza semplice. Basta iniziare a concentrarci su qualcosa ed è fatta!

Il vero problema è mantenere a lungo la concentrazione.

Lo sapete bene anche voi. Mantenere a lungo la concentrazione su qualcosa è difficile e faticoso e proprio per questo a volte ci mettiamo a sognare ad occhi aperti, ossia entriamo in modalità diffusa.

Tornando all’analogia dei flipper, funziona così: finché si usa il flipper a bersagli ravvicinati, ossia finché si resta concentrati, la nostra mente resta in modalità focalizzata, ma se ci si distrae un attimo, la pallina/pensiero perde energia e cadendo passa nel flipper a bersagli distanti, ossia entra subito in modalità diffusa.

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Quindi per entrare in modalità diffusa basta non concentrarsi su niente di particolare, andare a fare una passeggiata, guardare fuori dal finestrino di un autobus, fare una doccia o dormire.

Sembra anche che concentrarsi su qualcosa di diverso possa portare temporaneamente in modalità diffusa su ciò su cui non ci si sta più concentrando.

Da quanto è emerso sinora dagli studi scientifici, infatti, sembra che quando ci concentriamo su una cosa nuova, di fatto smettendo di concentrarci su ciò che stavamo facendo prima, il nostro cervello entri in modalità focalizzata sulla cosa nuova ma in modalità diffusa su quella vecchia.

Provo a farvi un esempio. Immaginate di dover risolvere un problema di matematica e di trovarlo difficile. Ci provate a lungo ma a un certo punto vi bloccate e non riuscite più ad andare avanti. Forse vi innervosite, smettete di lavorare sul problema e vi mettete a fare qualcos’altro, per esempio i compiti di storia. Mentre il cervello entra in modalità focalizzata sui compiti di storia, allo stesso tempo passa in modalità diffusa relativamente al problema di matematica. Ma la cosa più incredibile è che in modalità diffusa, il cervello sta, in realtà, continuando a lavorare anche sul problema di matematica, guardandolo da una prospettiva diversa e allargata, creando nuove connessioni neurali, viaggiando lungo percorsi nuovi. Quando lo riprenderete in mano potreste scoprire di esservi sbloccati o di essere riusciti per lo meno a capire da dove è necessario partire per trovare una soluzione! Vi è mai successo?

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Potrebbe capitare che mentre cercate di risolvere un problema di matematica o un esercizio di scienze o state facendo una versione di latino vi blocchiate e che la frustrazione aumenti sempre più fino a trasformarsi in rabbia. Perché succede?

Solitamente i motivi sono due:

  1. avete perso la spiegazione iniziale. Sfortunatamente con questo tipo di «blocco» entrare in modalità diffusa non serve a molto perché non avete “caricato” nulla in modalità focalizzata. La cosa migliore che potete fare in questo caso è tornare indietro, cercare esempi e spiegazioni sul libro o chiedere all’insegnante di rispiegarvelo ancora. Potete anche cercare un video di spiegazione su YouTube ma mi raccomando di non lasciarvi distrarre da altri video;
  2. oppure, nonostante vi siate concentrati con attenzione, ossia avete lavorato in modalità focalizzata, siete comunque bloccati e non sapete come andare avanti. La frustrazione aumenta e vi chiedete perché non ci riuscite.   Il motivo è che non avete ancora dato al cervello la possibilità di aiutarvi in modalità diffusa. Ricordate? La modalità diffusa non può attivarsi finché continuate  a rimanere concentrati su  qualcosa.

Secondo le ricerche sembra, però,  che concentrarsi su qualcos’altro possa portarci temporaneamente in modalità diffusa relativamente a ciò che ci sta bloccando. Avete quindi due possibilità: fate una pausa, magari facendo merenda con qualcosa di sano, o vi concentrate su qualcos’altro. Se siete bloccati su un problema di matematica, ad esempio,  mettetevi a fare  i compiti di grammatica o di storia.

Quando siete in modalità diffusa il cervello continua a lavorare con calma, in sottofondo, anche se spesso non ne siete consapevoli e può trovare nuove idee per risolvere il problema.

 Ricordate però che il cervello ha anche bisogno di riposare un po’.

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Quando si fa una pausa quanto deve essere lunga?

In realtà questo dipende da voi e da quante cose dovete fare per finire i compiti. Solitamente 5/10 minuti sono un tempo ragionevole. Se avete molto da studiare cercate di non fare pause troppo lunghe. È meglio finire presto e avere tempo per rilassarvi dopo!

Ciò che sembra aiutare di più quando si vuole dare al proprio cervello la possibilità di lavorare in modalità diffusa dopo aver lavorato a lungo in modalità focalizzata è:

  • fare esercizio fisico (sport, passeggiata, nuotata)
  • ballare!
  • fare un giro in bicicletta
  • disegnare o dipingere
  • fare una doccia
  • ascolta musica (soprattutto senza parole)
  • suonare uno strumento
  • dormire (la modalità diffusa per eccellenza!)

Questo per oggi è tutto! Ma se la cosa vi interessa, ora che abbiamo gettato le basi, nel prossimo post vi racconterò cosa fare concretamente per studiare “presto e bene”.

Buon nuovo inizio a tutti voi! 🙂


Studiare in modo efficace

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Soffrite di rimandite?

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Niente paura! Benvenuti nel club dei procrastinatori.

La seconda lezione su neuroscienze e metodo di studio l’ho iniziata così.

Procrastinare significa rimandare sistematicamente a più tardi qualcosa che dovrebbe essere fatto.  È un problema comune a giovani e meno giovani.

Perché fare qualcosa che non si ha voglia di fare, soprattutto se sai che sarà anche difficile farla?

Perché studiare il lunedì per una verifica che sarà venerdì? Tanto dimenticherai tutto!

Nessuno meglio di Tim Urban sa spiegare cosa accade nella mente di un procrastinatore per cui vediamo insieme il suo TED-talk.

Che c’è di male a procrastinare?

Se procrastini è probabile che non avrai più abbastanza tempo per imparare in modo appropriato e inoltre sprecherai energie preoccupandoti. Questa è una situazione senza via d’uscita: ne usciresti comunque sconfitto!

Perché procrastiniamo?

Quando pensi a qualcosa che non ti va di fare o non ti piace c’è una zona del tuo cervello che si chiama corteccia insulare che inizia a farti male!

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Le ricerche hanno mostrato che quando inizi a pensare che devi aprire i libri o devi metterti a pulire la tua stanza c’è un’area del cervello, la corteccia insulare appunto, che sperimenta dolore e comincia ad attivarsi. Per il tuo cervello, quindi, cominciare a studiare è come avere mal di stomaco. Sì hai capito bene!

La cosa interessante, però, è che dopo circa 20 minuti che hai iniziato a fare ciò che non volevi fare il dolore scompare! La corteccia insulare si calma non appena inizi un compito che stai evitando. È come se fosse felice che finalmente ti sei messo al lavoro!

Quindi per imparare ad imparare per prima cosa devi tenere duro e smettere di procrastinare! Ma come si fa?

Comincia con un POMODORO!

No, non devi farti un’insalata! La tecnica del pomodoro è un modo per smettere di procrastinare inventato negli Stati Uniti, negli anni ’80, da Francesco Cirillo, studente universitario italo-americano oggi sviluppatore di software ed imprenditore di successo.

Terminata l’euforia degli esami del primo anno F.C. è entrato in un periodo di scarsa produttività e grande confusione. Ogni giorno andava all’università, seguiva le lezioni, studiacchiava quando tornava a casa con la sensazione di non aver combinato nulla. Le scadenze degli esami erano sempre più vicine e gli sembrava di non saper come fare per difendersi dal tempo che passava. Osservando i compagni di università più produttivi, si rese conto che le sue numerose interruzioni e distrazioni e lo scarso livello di concentrazione e motivazione erano alla base del problema. Fece una scommessa con se stesso sfidandosi a studiare bene per 10 minuti senza interruzioni e decise di affidare il compito di «tutore del tempo» ad un timer a forma di pomodoro che aveva nella sua cucina. Francesco non riuscì subito a vincere la scommessa, anzi ci volle tempo e molti sforzi ma alla fine il meccanismo del pomodoro lo aiutò a migliorare il suo processo di studio e poi quello lavorativo arrivando pian piano  a mettere a punto quella che poi è diventata la tecnica del pomodoro oggi famosa in tutto il mondo.

Da: The Pomodoro Technique di Francesco Cirillo

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Come si fa?

  1. Allontana tutte le distrazioni: il telefono, la TV, la musica, tuo fratello, qualunque cosa o persona possa distrarti. Trova un posto tranquillo dove non verrai interrotto. Se non hai un posto così potresti provare ad usare i tappi per le orecchie.
  2. Imposta il timer per 25 minuti (se non ti piacciono i pomodori potresti provare a far crescere un albero con FOREST). Se hai 10-12 anni potresti iniziare con 10-15 minuti.
  3. Vai avanti e concentrati su ciò che devi fare meglio che puoi (metti il cervello in modalità focalizzata!)! 25 minuti non è un tempo troppo lungo. Puoi farcela!
  4. Ora viene la parte migliore. Dopo 25 minuti di studio fai una pausa e premiati con una pausa di 5-10 minuti permettendo al tuo cervello di entrare in modalità diffusa. Guarda un video, ascolta un po’ di musica, e magari balla! Oppure gioca con il tuo cane, fai una chiacchiera con i tuoi amici. La ricompensa è la parte più importante dell’intero processo. Sapere che c’è un premio ad aspettarti aiuta il tuo cervello a concentrarsi meglio.

Ricorda! Durante i minuti di pausa cerca di fare qualcosa che usi parti diverse del cervello. Ad esempio se stai scrivendo una relazione NON scrivere post su Facebook o Instagram. La pausa migliore è quella in cui ti alzi e ti muovi!

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Come si studia 

  1. Picture-walk: sfoglia il capitolo prima di cominciare a studiare. 

    Prima di tutto, osserva brevemente  tutte le figure, le didascalie, i diagrammi, i titoli dei paragrafi, le parole in neretto, il sommario e le domande di fine capitolo (se ci sono). Questo serve per dare al tuo cervello un’idea di ciò che stai per affrontare, per cominciare ad organizzare  i pensieri. È come vedere un’anteprima di un film o consultare una mappa prima di partire per un viaggio. Questa pre-lettura ti permetterà di organizzare meglio i pensieri quando leggerai in modo più focalizzato.

  2. Ingoia il rospo! È meglio cominciare la sessione di studio con l’argomento/compito più difficile o che ti piace di meno. In questo modo, potrai fare una pausa e lavorare su qualcos’altro se ti dovessi bloccare permettendo al tuo cervello di lavorare in sottofondo in modalità diffusa aiutandoti a «scollarti» da lì quando ci ritornerai su. Se poi dovessi finire subito senza nemmeno esserti bloccato ti sentirai alla grande perché ti sarai già tolto il pensiero!
  3. Leggi in modo attivo!  Inizia a leggere senza avere fretta di finire. Torna indietro se pensi di non aver capito bene qualcosa o se ti sei distratto. Distrarsi è normale e non significa essere meno intelligente. Qual è la domanda a cui ciascun paragrafo risponde? C’è qualcosa che non hai capito bene? Attenzione a tutte le parole in neretto o a ciò che viene messo in evidenza con caratteri o colori diversi. Annota alcune parole o le idee che ritieni importanti nel margine del libro o su un foglio di carta. Se ne hai bisogno sottolinea UNA parola o DUE, ma non molte altre.
  4. Punto cruciale: active recall! Ripeti in modo attivo. Chiudi il libro o il quaderno e vedi cosa ti ricordi. Quali sono le idee chiave della pagina? Ripetile a mente o ad alta voce cercando di ricordarle senza avere il libro aperto davanti a te. NON rileggere semplicemente più volte la stessa pagina e NON sottolineare o evidenziare grandi quantità di testo.  Le ricerche hanno dimostrato che se quando studi usi questa tecnica, al momento della verifica o dell’interrogazione avrai risultati migliori anche se sei sotto stress.
  5. Usa la tecnica del pomodoro. Questa tecnica ti permette di attuare anche un’altra strategia molto potente quando si tratta di organizzare il lavoro/studio in modo efficace: spezzetta un compito grande in pezzi più piccoli (chunking down) che percepiamo così come maggiormente fattibili e sotto il nostro controllo.
  6. Continua a ripassare! Richiama alla mente ciò che hai studiato diverse volte nel tempo e cerca di farlo in posti diversi (ad esempio mentre aspetti un amico, o sei sull’autobus o prima di andare a letto). Ci sono 2 buoni motivi per farlo: non hai davanti né il libro né gli appunti e ti stai veramente sforzando di ricordare ciò che sai senza poterci dare una sbirciatina; non sei nel tuo solito ambiente di studio. Imparare in luoghi diversi può «incollare» in modo più duraturo le informazioni nella tua memoria.
  7. Stabilisci un “quitting time”. Anche se hai tante cose da fare datti un tempo di «chiusura» e rispettalo. Questo ti aiuterà a mantenerti concentrato e ti darà anche il tempo di rilassarti un po’.
  8. Niente schermi retroilluminati prima di andare a dormire!  Prima di andare a dormire, se vuoi, puoi dare un’ultima occhiata ai tuoi appunti ma EVITA ASSOLUTAMENTE di usare qualunque dispositivo retroilluminato (cellulare, computer, tablet) per almeno un’ora o due prima di andare a letto. Gli schermi retroilluminati inviano segnali luminosi al tuo cervello che dicono «svegliati») e questo può renderti difficile addormentarti. Dormire è il modo migliore per far lavorare il cervello in modalità diffusa e fissare ciò che hai studiato durante il giorno.

Se vuoi avere molti altri preziosi consigli leggi il libro di Barbara Oakley e Terry Seinowski ma nel frattempo goditi anche il suo Ted-talk!

Teachable moments: il terremoto del 28 settembre in Indonesia

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Cari amici, stavo preparando le lezioni sui terremoti della settimana prossima quando ho pensato che probabilmente vi avrebbe fatto piacere conoscere una risorsa, di cui non vi ho ancora parlato, estremamente utile e affidabile.

Sono abbastanza sicura che la maggior parte di voi conosca già il sito dell’IRIS (Incorporated Research Institutions for Seismology) che offre tantissime risorse didattiche sui fenomeni sismici. Non tutti sanno, però, che all’interno del sito, c’è anche una sezione chiamata “Recent Earthquake Teachable Moments” in cui potete trovare praticamente in tempo reale presentazioni con dati scientifici di grande valore e di facile comprensione sugli eventi sismici più recenti.

Le presentazioni di IRIS Teachable Moments permettono, quindi, all’insegnante di cogliere al volo opportunità non pianificate per spiegare i fatti scientifici di terremoti degni di nota stimolando, al contempo, il pensiero critico dei ragazzi.

Questo servizio dell’Università di Portland e di IRIS Education and Outreach fornisce mappe e sintesi tettoniche regionali USGS interpretate, animazioni al computer, sismogrammi, foto e altre informazioni specifiche dell’evento. Le presentazioni sono prodotte entro poche ore dall’evento e sono preparate da sismologi ed educatori. Sono un prodotto già pronto da portare in classe che, però, può anche essere personalizzato.

Inoltre, se vi iscrivete al servizio vi arriverà una notifica ogni volta che vengono pubblicate nuove presentazioni.

Nei prossimi giorni, gli eventi drammatici accaduti in Indonesia appena due giorni fa saranno sicuramente oggetto di domande e curiosità da parte dei ragazzi e dovranno, naturalmente, essere esplorati e discussi.

Ed è proprio grazie alla mail ricevuta qualche ora fa dall’IRIS che ho potuto scaricare una presentazione relativa al sisma che ha così duramente colpito, ancora una volta, l’Indonesia.

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La prossima settimana, quindi, la mostrerò ai ragazzi: discuteremo e chiariremo i dati presentati e ci eserciteremo un po’ sull’inglese scientifico facendo, così, anche una piccola lezione CLIL.

Devo confessarvi che le  presentazioni reperibili sul sito sono di grande aiuto anche per me perchè mi permettono di approfondire alcuni aspetti tecnici con un linguaggio, però, abbastanza semplice.

Ho pensato, quindi, che potesse essere utile anche a voi!

Buona nuova settimana! 🙂

 

Altre risorse sui terremoti nel blog:

IBSE e progettazione a ritroso per una valutazione efficace

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Iniziare con in mente la fine significa iniziare con una chiara comprensione della propria destinazione. Significa sapere dove si sta andando così da meglio comprendere dove ci si trova ora, in modo che i passi che si fanno vadano sempre nella giusta direzione.

Stephen R. Covey, The seven habits of highly effective people, 1989, p.98

Progettare percorsi di apprendimento efficaci e significativi è una delle principali sfide che dobbiamo affrontare ogni anno. Non è possibile riproporre le lezioni dell’anno precedente come se si inserisse il pilota automatico. I nuovi studenti saranno sicuramente molto diversi dai ragazzi che li hanno preceduti in quella classe e anche gli studenti “più vecchi” saranno cresciuti e sicuramente cambiati. Insomma, lo sappiamo bene: quello che ha funzionato (o funziona) con una classe non è detto che sia altrettanto efficace con un’altra. Anzi, a dirla tutta, non succede quasi mai.

E allora, come ogni anno, ogni volta che sto per iniziare un nuovo segmento del mio percorso, riprendo in mano l’impianto precedente e ci lavoro ancora un po’. Elimino ciò che non mi aveva convinto fino in fondo e cerco nuove idee per potenziare ciò che invece funziona bene.

Il punto dolente di tutta la faccenda, però, non è tanto trovare nuove attività per coinvolgere ed entuasiasmare i ragazzi (la rete è piena di idee), ma è cercare di capire come progettare le attività in modo da poter anche verificare in modo efficace che i ragazzi abbiano davvero imparato.

Da tempo ritengo che la progettazione a ritroso sia uno strumento davvero forte in tal senso.

Grant Wiggins e Jay McTighe sostengono che spesso gli insegnanti iniziano a progettare partendo dai libri di testo, dalle lezioni preferite, dalle attività consolidate nel tempo, invece di farle derivare dagli scopi che ci si prefigge come meta. In quest’ottica, gli autori ritengono che sia meglio iniziare dalla fine (i risultati desiderati, gli obiettivi prefissati) per poi ricavare il curricolo dalle evidenze dell’apprendimento (le prestazioni). La programmazione dovrebbe quindi derivare dai modi più efficaci di raggiungere risultati specifici e non dai metodi, dai libri e dalle attività con cui ci sentiamo più a nostro agio.

Questo approccio alla progettazione viene definito a ritroso perché prevede che l’insegnante pianifichi il percorso di apprendimento partendo dalla definizione di ciò che merita di essere appreso. In realtà, si tratta di un approccio perfettamente in linea con il senso comune, ma è considerato a ritroso rispetto alle abitudini convenzionali.

Questo modo di procedere, pur avendo molti aspetti in comune con la progettazione tradizionale per obiettivi/competenze, contiene alcuni elementi innovativi o comunque poco consueti, che ne rappresentano il valore aggiunto. Nella progettazione a ritroso, invece di pensare alle modalità di accertamento e valutazione alla fine di una unità di studio o di un percorso, o di affidarci semplicemente ai test allegati nella guida per gli insegnanti del libro di testo che potrebbero non accertare in modo completo o appropriato obiettivi/competenze rilevanti, bisogna rendere operativi gli obiettivi/competenze in termini di evidenze di accertamento nel momento in cui iniziamo a costruire un’unità o un corso di studio, ossia prima di cominciare a pianificare le esperienze di apprendimento e di insegnamento.

Questo processo ci obbliga, così, a iniziare dalla domanda: quali sono le evidenze di conseguimento delle competenze desiderate che sono disposto ad accettare?

Secondo gli autori, partire dalle evidenze di apprendimento non solo aiuta a chiarire a se stessi gli scopi da perseguire, ma produce come risultato anche obiettivi di apprendimento e di insegnamento definiti con maggiore chiarezza, cosa che negli studenti favorisce prestazioni migliori dal momento che conoscono con maggiore chiarezza l’obiettivo che devono raggiungere.

Se la progettazione a ritroso è, quindi, un modo “forte” di progettare, allo stesso tempo, come sapete bene, insegnare scienze per me significa solo una cosa: IBSE.

L’IBSE è incredibilmente potente e più passa il tempo più ne sono convinta. Inoltre, il suo impianto concettuale si sposa perfettamente con molte tecniche didattiche innovative e non (apprendimento cooperativo, didattica digitale, flipped classroom…) consentendo di promuovere conoscenza, comprensione, competenze e pensiero critico in molteplici modi, andando incontro, così, agli stili di apprendimento più diversi dei ragazzi.

IBSE e progettazione a ritroso possono camminare insieme, anzi sono un connubio perfetto e non solo solo io a pensarlo.

Se ricordate, un po’ di tempo fa vi avevo consigliato la lettura di un libro di Rodger Bybee, “The BSCS 5E instructional model – creating teachable moments“, in cui l’autore racconta come fare a implementare in classe  il learning cycle delle 5E per creare momenti di apprendimento (che io definisco “magici”) in cui gli studenti, e gli insegnanti, siano completamente coinvolti.

Ebbene, secondo Bybee quando si progettano unità inquiry-based attraverso il learning cycle delle 5E è bene seguire anche le tre fasi della progettazione a ritroso di Wiggins e McTighe:

  1. individuare i risultati desiderati
  2. determinare le evidenze di accettabilità dell’apprendimento (performance expectations)
  3. pianificare le attività di istruzione.

Ciò ci aiuterà a progettare percorsi di apprendimento avendo un’idea molto chiara di ciò che gli studenti dovranno fare per dimostrare la loro comprensione e, di conseguenza, rinforzerà l’aspetto più critico e delicato del percorso: la valutazione.

Secondo Bybee, il learning cycle delle 5E fornisce un modo pratico di applicare il processo della progettazione a ritroso:

Ubd e 5E

Ecco, amici, questo sarà il filo conduttore del mio lavoro per questo nuovo anno scolastico: migliorare la valutazione mettendo a sistema la progettazione a ritroso con il learning cycle delle 5E. La prossima settimana comincerò a pubblicare esempi di programmazione e valutazione. Vi piace l’idea?

Per approfondire:

Lo facciamo insieme?

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Quasi quasi ci siamo. In terza ho appena terminato gli argomenti di chimica stabiliti nella programmazione iniziale e sto facendo alcune lezioni introduttive sulla storia della Terra per invogliare i ragazzi a saperne di più sulla nuova disciplina che ci accingiamo ad affrontare. Stiamo viaggiando nel tempo esplorando alcuni ambienti del passato grazie alle informazioni ricavate da fossili e rocce e tra pochi giorni saremo pronti per iniziare a parlare di minerali.

Mi sono ripromessa molte volte di trovare il tempo per trasformare in lezioni inquiry-based anche le mie lezioni “consolidate” sui minerali ma fino ad ora, devo essere sincera, non ho trovato la spinta giusta per andare oltre la fase di Engage.

Quando si dice il destino.

Nei giorni scorsi, però, mentre riflettevo per l’ennesima volta sul da farsi, mi sono imbattuta in un articolo di Bridget Mulvey, della Kent State University (USA), Grouping minerals by their formulas,  che mi ha definitivamente convinto a rompere gli indugi e passare all’azione. Quindi mi sono messa al lavoro.

Insieme è meglio.

Quando ho iniziato a scrivere questo blog ciò che più desideravo era riuscire a condividere esperienze non solo per far circolare idee ma soprattutto per creare una community in cui chiacchierare di didattica delle scienze insieme a colleghi fisicamente lontani, è vero, ma vicini di “cuore”. Sono stata fortunata, perché da allora ho ricevuto tanti riscontri da parte vostra anche se quasi sempre in privato (via mail). A seguito del mio ultimo post, invece, alcuni di voi hanno vinto la timidezza e hanno cominciato a condividere esperienze ed idee. Ebbene amici (chi condivide gli stessi ideali può considerarsi amico, giusto?) perché smettere ora?

Il vostro calore ed entusiasmo mi ha fatto venire un’idea. Che ne dite di progettare insieme questo percorso?

L’idea è questa: ogni settimana pubblicherò le linee guida per la progettazione delle varie fasi del learning cycle insieme a qualche proposta concreta. Voi ci riflettete e postate altre possibili idee sviluppandole secondo le stesse regole. Se alcuni di voi (spero tanti) posteranno il proprio lavoro, chi leggerà troverà non un solo spunto ma tanti possibili percorsi tra cui scegliere a seconda delle proprie esigenze.

So che siete fantastici e fate mille cose bellissime. Pensate che meraviglia e che arricchimento per tutti!

Che ne dite? Ci state?

ENGAGE

Per cominciare è bene ricordare che lo scopo della prima fase del learning cycle delle 5E è quello di introdurre l’argomento che verrà trattato nelle lezioni successive attraverso attività che:

  • stimolano la curiosità degli studenti
  • li coinvolgono a livello personale
  • generano nuove domande nella loro mente
  • creano connessioni con le loro esperienze di apprendimento pregresse
  • fanno emergere le eventuali concezioni errate.

Quindi, quali attività possiamo proporre che rispondano a questi requisiti?

In che modo queste attività ci aiuteranno a identificare le concezioni errate che i nostri studenti potrebbero avere sull’argomento?

Quali strategie potremo adottare per la gestione del tempo?

Nell’articolo di cui vi ho accennato prima, la Mulvey suggerisce di iniziare il percorso sui minerali  facendo osservare con una document camera cosa accade quando si rompe un pezzo di salgemma con un martello distribuendo, poi, agli studenti i frammenti ottenuti per un’osservazione più ravvicinata. Ogni gruppo dovrà avere a disposizione anche un campione integro dello stesso minerale in modo da poterli mettere a confronto.

Dopo qualche minuto si ripete la procedura con un campione di spato di Islanda (calcite).

Completate le osservazioni iniziali, i ragazzi dovranno mettere a confronto i due minerali alla ricerca di somiglianze e differenze nella forma, nel colore, nella trasparenza e nel modo in cui si rompono quando vengono colpiti con il martello (clivaggio).

Inoltre testeranno  la reattività con acido (usando aceto o acido cloridrico al 10%) scoprendo che a differenza del salgemma, che non reagisce, la  calcite produce effervescenza.

Infine, esploreranno anche le proprietà ottiche dei due minerali scoprendo anche che, a differenza del salgemma, quando la calcite viene appoggiata su un materiale stampato, come ad esempio una fila di puntini, questa appare doppia (questa proprietà è chiamata birifrangenza o doppia rifrazione).

Lo step successivo prevede che ai ragazzi vengano consegnati dei modelli a palline e bacchette di diamante e grafite (minerali polimorfi) con la consegna di individuare un  possibile motivo che spieghi le differenti proprietà di questi due minerali composti dallo stesso elemento, il carbonio.

diamante e grafite

È bene ricordare che in questa fase i ragazzi non dovranno utilizzare il lessico specifico ma descriveranno quanto osservato con le proprie parole. L’insegnante non darà definizioni formali su ciò che i ragazzi stanno esplorando, né anticiperà a quali conclusioni arriveranno, ma dalla discussione delle osservazioni fatte fin qui emergerà la necessità di avere almeno una definizione di minerale condivisa a cui riferirsi. L’insegnante allora spiegherà ai ragazzi che affinché una sostanza venga considerata un minerale deve:

  • essere una sostanza solida naturale generalmente inorganica (prodotta senza l’intervento di organismi viventi);
  • avere una struttura interna ordinata (cristallina);
  • avere una composizione chimica definita;
  • presentare proprietà fisiche e chimiche costanti e caratteristiche.

Dalle osservazioni dei modelli della struttura cristallina di diamante e grafite, i ragazzi dovrebbero riuscire a intuire che la capacità della grafite di scorrere sulla carta quando scriviamo con una matita sia dovuta al fatto che a livello microscopico sono presenti forze di Van Der Waals (deboli forze attrattive che legano le molecole tra loro) che tengono insieme piani di atomi di carbonio legati tra loro in modo covalente. Queste forze non sono presenti, invece, nel diamante, che è il minerale più duro sulla Terra.

Sicuramente interessante cominciare così, non credete?

Io però temo di avere qualche difficoltà di ordine pratico. Innanzitutto, dove trovo campioni di minerali, anche se si tratta solo di salgemma e calcite,  da “sacrificare” per l’osservazione? Anche se a scuola abbiamo una document camera, non posso certo chiedere di comprare campioni di minerali da rompere ogni volta che affronto questo argomento con una classe. Sarebbe bello ma è poco realistico.

Nel tempo mi sono costruita una piccola collezione di minerali che porto a scuola e che utilizzo per far fare osservazioni ai ragazzi, ma non posso certo permettermi di frantumarli con il martello ogni anno. Inoltre, non dispongo nemmeno di un numero sufficiente di campioni integri per poter far lavorare i ragazzi in gruppi diversi sugli stessi minerali, né modelli a palline e bacchette di qualunque minerale.

Insomma, devo fare i conti con le risorse (poche) che ho a disposizione e quindi, anche se mi dispiace, la fase di Engage proposta dalla Mulvey così com’è proprio non va. Cosa posso fare allora che sia a costo zero e che stimoli la curiosità dei ragazzi, li coinvolga a livello personale e faccia venir loro voglia di saperne di più?

Chi cerca, trova.

Certo potrei utilizzare video e immagini e riproporre lo stesso percorso in modalità virtuale ma l’idea davvero non mi piace. Se proprio devo usare la rete, preferisco farlo in un modo diverso.

Lo so, finora non sono particolarmente originale visto che solitamente introduco i minerali parlando di  biciclette, ma cercando in rete nuove idee ho trovato un sito, il Mineralogy4kids della Mineralogical Society of America, dove ci sono informazioni sui minerali presenti negli oggetti che possiamo trovare in casa.

Le attività di Engage dovrebbero essere tendenzialmente brevi (e coinvolgenti).

Ovviamente, la durata di una attività non può essere qualcosa di estremamente rigido. Dipenderà dalla situazione, dall’argomento da trattare e varierà anche da classe a classe. Il tempo, però, è tiranno per cui personalmente non dedico mai più di un’ora a questa fase, anzi a volte anche meno.

Penso, quindi, che inizierò la lezione semplicemente chiedendo ai ragazzi di scrivere brevemente sul loro quaderno cosa pensano che sia un minerale, di fornire qualche esempio e di dire dove pensano che questi  minerali si possano trovare. Quindi dopo una breve condivisione e discussione delle risposte proporrò un’ attività proprio sui minerali presenti negli oggetti con cui veniamo a contatto nella vita di tutti i giorni.

Sfruttando gli iPad che abbiamo a disposizione a scuola, i ragazzi si collegheranno al sito ed entreranno in ciascuna stanza della casa (camera da letto, cucina, bagno e sala da pranzo) scegliendo almeno un oggetto in ciascuna per scoprire quali minerali sono stati usati per fabbricarlo. A supporto dell’attività fornirò una scheda (I minerali sono ovunque), che inseriranno nel quaderno, dove registrare quanto trovato su ciascun oggetto annotando anche cosa li ha colpiti di più tra le cose che hanno scoperto e perché.

Dopo questa breve attività di apertura distribuirò la mia piccola collezione di minerali in modo che i ragazzi possano osservarne alcune caratteristiche: colore, odore (ho dello zolfo), lucentezza, pesantezza, forma…

Passando tra i gruppi, chiederò se pensano di averne riconosciuto qualcuno e quali caratteristiche, secondo loro, sono state utili per l’identificazione.

Queste semplici attività (niente effetto WOW, lo so!) serviranno a stimolare la curiosità dei ragazzi, attiveranno le loro conoscenze pregresse aiutandoli a diventare consapevoli di ciò che sanno (o pensano di sapere) sull’argomento. Quando si apprende, la consapevolezza del proprio punto di partenza costituisce una base solida su cui costruire. Saltare questo passaggio diminuisce l’efficacia e la persistenza di qualunque concetto o esperienza introdurremo successivamente.

Verso la fine di questa prima lezione spiegherò quali caratteristiche deve avere una sostanza per essere considerata un minerale in modo da arrivare a una definizione condivisa a cui agganciare le attività delle lezioni successive (la fase di Explore).

Adesso tocca a voi. Aprite i vostri bauli di esperienza e condividete!

Quale potrebbe essere, secondo voi, una fantastica attività di Engage?

Scrivete, scrivete, scrivete!!!

P.S. La prossima settimana… fase di Explore 🙂

 

 

 

 

 

 

Il magico potere della condivisione

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Ieri è successa una cosa che mi ha dato una carica pazzesca e voglio raccontarvelo.

In questi ultimi giorni,  ho lavorato alla fase di Explore del percorso sui minerali in modo da poter arrivare pronta al mio appuntamento con i ragazzi ma anche al mio (quasi) settimanale appuntamento con voi.

Quando trovo qualche idea interessante in articoli, libri o in rete, difficilmente mi limito a tradurre e mettere in pratica ma approfitto di ogni occasione per continuare a studiare, ad approfondire questo approccio che giorno dopo giorno ha cambiato, e continua a cambiare, il mio modo di vedere l’insegnamento e l’apprendimento dei ragazzi ma anche il modo di approfondire la mia stessa conoscenza scientifica.

E così è stato anche stavolta. Ho continuato a cercare idee per possibili attività di Explore sui minerali ma dopo averne analizzato qualcuna ho deciso di tornare all’ispirazione originale, ossia l’articolo della Prof.ssa Bridget Mulvey della Kent State University (Ohio).

Non si tratta di una investigazione da svolgere in laboratorio ma di un’attività che promuove una delle fondamentali abilità di processo scientifico: saper classificare.

Le attività di esplorazione inquiry-based comportano che, mentre apprendono i principi e i concetti della scienza, gli studenti applichino contemporaneamente una serie di abilità di processo (process skills) che riflettono il comportamento degli scienziati.

Le abilità di processo sono suddivise in due categorie: di base (più semplici) e integrate (più complesse).

Abilità di processi di  base

  • Osservare: usare i sensi per raccogliere informazioni (dati) su un oggetto o un evento.
  • Fare inferenze: fare deduzioni logiche a partire dai dati.
  • Misurare: usare misure standard o non standard o fare una stima per descrivere le dimensioni di un oggetto o l’entità di un fenomeno.
  • Comunicare: usare parole o simboli grafici per descrivere un’azione, un oggetto o un fenomeno.
  • Classificare: raggruppare (o mettere in ordine) oggetti, organismi o eventi in categorie basate su proprietà o criteri.
  • Fare previsioni su ciò che accadrà in futuro basandosi su dati e deduzioni.

Abilità di processo integrate

  • Controllare le variabili – essere in grado di identificare le variabili che possono influenzare un risultato sperimentale, mantenendone la maggior parte costante mentre si modifica solo la variabile indipendente.
  • Definire in modo operativo – essere in grado di affermare come fare a misurare una variabile in un esperimento.
  • Formulare ipotesi – saper formulare il risultato atteso di un esperimento.
  • Interpretare i dati – saper organizzare i dati e trarre conclusioni da essi.
  • Sperimentare – essere in grado di porre una domanda che sia investigabile, formulare un’ipotesi, identificare e controllare le variabili, definire in modo operativo queste variabili, progettare un esperimento corretto, condurlo e interpretarne i risultati.
  • Formulare modelli – creare un modello mentale o fisico di un processo o di un evento.

Per apprendere i concetti scientifici attraverso l’inquiry, gli studenti devono diventare esperti nell’uso di queste abilità (NRC, 1996, 2000).

Le attività di inquiry non sono tutte uguali e possono presentarsi in molte forme diverse. Tra queste ci sono le attività di “classificazione”  che prevedono di presentare agli studenti una gran varietà di campioni da analizzare allo scopo di identificare caratteristiche che li colleghino tra loro in modo da poterli organizzare in categorie significative dal punto di vista scientifico. Naturalmente, in questo tipo di attività è fondamentale assegnare un numero sufficientemente grande e vario di campioni in modo che  non ci si riduca all’individuazione di categorie predeterminate.

L’attività di classificazione, naturalmente, non è un fine ma serve a raggiungere uno scopo più grande. La classificazione scientifica è utilizzata dagli scienziati per identificare campioni sconosciuti o per comprendere o fare previsioni sul comportamento o sulle proprietà di sostanze o fenomeni sconosciuti. A questo scopo, gli scienziati usano una grande varietà di schemi di classificazione che dipendono dalla natura delle entità da classificare e dalle necessità degli scienziati stessi.

L’attività deve, quindi, avere anche un contesto sia per motivare la formulazione dell’organizzazione che per guidare le decisioni su quali aspetti dei campioni sono più importanti.

Naturalmente, poiché c’è più di un modo per classificare i campioni, l’argomentazione delle scelte diventa una parte cruciale dell’attività di inquiry.

Quando gli oggetti vengono ordinati secondo attributi ascendenti o discendenti riguardo, ad esempio, a dimensioni, peso o complessità, la classificazione è di tipo seriale. Questo è forse il sistema più semplice per raggruppare oggetti simili. Ad esempio, la scala di Mohs della durezza dei minerali è una classificazione seriale che è stata sviluppata per aiutare  i geologi a identificare rocce e minerali sconosciuti trovati sul campo.

La classificazione tassonomica, invece, si riferisce  ad uno specifico schema di classificazione che ha una struttura di tipo gerarchico ma che è più complesso di un semplice schema di classificazione seriale. Il sistema tassonomico più noto è quello della classificazione biologica usato per gli organismi viventi. Una delle caratteristiche di questo schema di classificazione è che può essere usato per determinare somiglianze e differenze tra gli organismi.

Sia la classificazione seriale che quella tassonomica sono sistemi gerarchici di classificazione. Esiste, però, anche altri sistemi di classificazione: la classificazione concettuale e quella fenomenologica.

Questi due schemi di classificazione raggruppano oggetti o fenomeni secondo differenze concettuali o osservabili che non sono gerarchiche in termini di dimensioni, grado o complessità. Questi tipi di classificazione si focalizzano sulle somiglianze degli oggetti all’interno di ciascun raggruppamento piuttosto che sulle differenze tra i raggruppamenti. Questo è il metodo più comunemente usato dagli scienziati anche se non sempre le persone lo riconoscono come una forma di classificazione. Esempi possono essere: la classificazione dei vulcani secondo la forma dell’edificio vulcanico e la storia eruttiva (vulcano a scudo, strato vulcano…), la classificazione del suolo in base alle proporzioni delle sue componenti (ghiaia, sabbia, argilla, humus), la classificazione dei legami chimici (covalente, ionico, metallico…), la classificazione dei materiali secondo la capacità di condurre elettricità o sulle proprietà magnetiche e…. la classificazione dei minerali sulla base della formula chimica.

Ok avete ragione. Ho iniziato questa nostra “chiacchierata” dicendovi che ieri è successa una cosa che mi ha dato una carica pazzesca e, invece di spiegarmi, mi sono messa a “classificare” i sistemi di classificazione. Ci riprovo…

Nei giorni scorsi, nei pochi ritagli di tempo a disposizione, dopo aver scelto di provare l’attività della Prof.ssa Mulvey, ho cominciato a studiarla sia dal punto di vista metodologico che pratico.

Ho letto attentamente l’articolo ma più lo leggevo più mi sorgevano dubbi e domande.

EXPLORE

ExploreL’attività proposta prevede che i ragazzi vengano suddivisi in piccoli gruppi in modo da poter lavorare in modo cooperativo. A ciascun gruppo viene consegnata una busta contenente due set di carte (Carte minerali). Su ciascuna carta c’è il nome e la formula di un minerale. Per prima cosa i ragazzi individuano i minerali indicati nelle carte tra i campioni messi a loro disposizione. Se non si dispone del campione di alcuni minerali si può inserire una foto  sul retro della carta e si può saltare la fase di identificazione. Per prima cosa, gli studenti devono osservare attentamente le formule chimiche dei minerali sulle carte e annotare tutte le domande che sorgono riguardo, ad esempio, alcune formule “strane” , diverse da quelle appena studiate in chimica.

Un rappresentante di ciascun gruppo riferisce le domande emerse all’insegnante che risponderà brevemente prima che i ragazzi comincino a lavorare alla classificazione. Quindi, ciascun gruppo esamina il proprio set di carte cercando somiglianze e differenze nelle formule chimiche. 

I gruppi realizzeranno un primo sistema di classificazione che rappresenteranno su un foglio o un poster, preparandosi ad argomentare le scelte fatte. I sistemi di classificazione saranno condivisi con l’intera classe e discussi  brevemente. La condivisione del lavoro dei vari gruppi supporterà la ridefinizione del sistema di classificazione nel secondo round dell’attività.

Terminata la discussione, ciascun gruppo comincerà ad analizzare il secondo set di carte  cercando di capire  come inserirle nel sistema di classificazione sviluppato apportando eventuali modifiche. Durante l’attività, l’insegnante passa tra i gruppi stimolando i ragazzi anche a riflettere su quali sono gli elementi più comuni nei materiali della crosta terrestre, dove si trovano questi elementi nella tavola periodica (metalli, non metalli, semimetalli) e quali possano essere le ragioni che hanno portato gli scienziati a creare questo tipo di  classificazione e perché classificare è rilevante.

EXPLAIN

explain

Nella lezione successiva, ogni gruppo tramite una “sessione poster” presenta il proprio sistema di classificazione finale e i criteri utilizzati per svilupparlo. Gli studenti circolano tra i poster mettendo a confronto i diversi sistemi di classificazione, considerandone punti di forza e di debolezza.

Gli studenti utilizzano post-it  per appuntare le proprie osservazioni e le eventuali domande. Lo scopo di  questa attività è quello di arrivare a un sistema di classificazione condiviso a livello di classe. Ogni gruppo, infatti, dovrà proporre un modo per integrare i diversi sistemi di classificazione in modo da ottenerne uno unico.

L’insegnante a questo punto introduce il nome delle diverse classi di minerali (silicati, carbonati, ossidi, solfuri e alogenuri) e presenta il sistema di classificazione usato dagli scienziati.

Nonostante abbia compreso subito la forza di questa attività nello stimolare abilità di processo come la classificazione e nel potenziare lo sviluppo di abilità di pensiero critico, molte domande hanno cominciato ad affollarmi la mente nel momento in cui mi sono messa a preparare operativamente le carte da utilizzare in classe e il materiale di accompagnamento alla riflessione.

Se è vero che in letteratura si trova che le attività inquiry-based possono essere di classificazione a patto che siano inserite in un contesto opportuno, quali caratteristiche dell’inquiry sono presenti in questa attività? E dal punto di vista pratico, quali e quanti minerali dare ai ragazzi in ciascun set?

Poiché in fondo all’articolo ho trovato la mail dell’autrice mi sono fatta  coraggio e le ho scritto sottoponendole i miei dubbi e le mie domande. Chiedere è lecito, rispondere è cortesia. In fondo non avevo niente da perdere. Il massimo che mi poteva capitare era che avrebbe completamente ignorato la mail di una sconosciuta insegnante italiana che aveva la faccia tosta di farle un mucchio di domande in un improbabile inglese.

Ebbene, la cosa straordinaria che è successa ieri è questa: non solo non ha cestinato la mail ma ha risposto a tutte le mie domande dandomi anche indicazioni di carattere pratico!

In breve, quello che gli studenti fanno in questa attività è rispondere ad una domanda di ricerca attraverso l’analisi indiretta di dati. Per quanto riguarda la domanda dai ricerca, vista la natura di questa investigazione, potrebbe essere qualcosa come “in che modo i minerali possono essere raggruppati in base alla loro formula?“.

Il punto focale di questa attività non è la classificazione in sé ma sono le idee degli studenti e le argomentazioni su tali idee. Questo tipo di attività richiede alti livelli di pensiero critico e questa è una delle abilità importanti che l’inquiry aiuta a sviluppare. Gli studenti non raccolgono direttamente i dati da analizzare ma cercano di identificare pattern dal confronto delle formule dei minerali con la tavola periodica. Del resto, nemmeno gli scienziati raccolgono sempre i propri dati.

Per concludere questo lungo racconto, cari amici, la grande disponibilità di questa docente nei confronti di una perfetta sconosciuta che per di più lavora dall’altra parte del mondo mi ha fatto riflettere molto e mi ha ricordato il motivo per cui io stessa sono qui a scrivervi di sabato pomeriggio.

Troppo spesso ho visto persone (o associazioni) produrre materiali per gli insegnanti da tenere chiusi a chiave in portali protetti da password. Non sono mai riuscita a capire il motivo di tanta “riservatezza”. Di cosa si ha paura? Non dovremmo avere tutti un unico obiettivo: aiutare i ragazzi a crescere ed imparare?

Che senso ha progettare se poi non c’è condivisione? 

Quando ho deciso di tenere un blog tutto mio, l’ho fatto proprio perché tante volte, in passato, mi sono imbattuta in questo tipo di chiusura. Durante gli anni del dottorato, ho invece conosciuto una realtà completamente diversa. Ogni volta che, all’estero, ho bussato a qualche porta non solo mi è stato aperto ma sono stata invitata ad entrare e accolta con la massima ospitalità. Questo è ciò che volevo fare anch’io.  Aprire la mia “casa”, seppur semplice e ancora incompleta, a tutti coloro che hanno voglia di crescere in un’ottica di condivisione di esperienze ed idee.

In un sistema che ci ignora, non ci rispetta e non ci premia, l’unica soluzione per continuare a crescere e restare motivati in quello che per me  è il mestiere più bello del mondo, è aiutarci a vicenda attraverso la condivisione.

Certo non è facile, e a volte è difficile trovare anche solo il tempo di mettersi davanti al computer a scrivere, ma ogni volta che qualcuno mi risponde o mi scrive in privato, per chiedere materiali o raccontare di sé, ogni volta che ho la possibilità di aprire la mia porta io sono felice e sento che tutto ciò in cui credo ha un senso!

Spero che incontrarci qui, su questo blog, continui ad essere un piacere anche per voi.

Come sempre, prima di salutarvi, un ‘ultima preghiera: scrivete, condividete.

Che ne pensate? Cosa proporreste di diverso? Che dubbi avete?

Non avete idea di quanta ricchezza tutti insieme possiamo rappresentare. A presto! 🙂

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Per saperne di più:

 

 

Formulare la domanda giusta

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Se avessi solo un’ora per risolvere un problema e la mia vita dipendesse da questo, userei i primi 55 minuti per formulare la domanda giusta, perché, una volta trovata, potrei risolvere il problema in meno di 5 minuti”.

Albert Einstein

Progettare un percorso inquiry-based può essere difficile. Finchè si tratta di trovare modi per agganciare i ragazzi, stupirli, affascinarli non abbiamo certo difficoltà. Abbiamo fantasia e ci piace scoprire sempre cose nuove, quindi saremmo in grado di tirar fuori dal cilindro attività di Engage nuove ogni volta che entriamo in classe. Il vero problema è lo step successivo: la fase di Explore.

Negli ultimi anni ho tenuto spesso corsi di formazione per gli insegnanti e ho potuto constatare che è proprio questo il punto dolente dove, a volte, ci si può bloccare.

Secondo il National Research Council americano (NRC 1996, 2000) per apprendere attraverso l’inquiry gli studenti devono, per prima cosa,  essere coinvolti attivamente da domande significative dal punto di vista scientifico (investigabili).

Le domande investigabili sono, quindi, alla base dell’inquiry scientifico, del processo di ricerca scientifica e dell’insegnamento/apprendimento basato sull’Inquiry.
Non tutti i tipi di domande sono, però, significative dal punto di vista scientifico, ossia investigabili.
Domande come ad esempio “Perchè esistono i terremoti?” o “Perchè un bruco si trasforma in farfalla?” sono interessanti ma non portano a raccogliere/analizzare dati o evidenze per rispondere.
Wynne Harlen e Ann Qualter (The teaching of science in primary school, London: Routledge, 2009) hanno fatto un’attenta analisi delle possibili tipologie di domande che vengono utilizzate in classe e hanno concluso che queste ricadano quasi sempre in una delle seguenti categorie:
  • quelle a cui la scienza non può dare risposta: per esempio domande metafisiche o filosofiche del tipo “Perchè esistono gli animali?”;
  • quelle la cui risposta è estremamente complessa o sconosciuta: ad esempio “Perchè la calamita attrae le graffette?” o “Perchè il cielo è blu?”;
  • quelle che sono semplicemente richieste di fatti o definizioni a cui si può rispondere cercando su libri o altre fonti di informazione: ad esempio “Qual è il nome di questo minerale?”
  • quelle investigabili che portano gli studenti in direzioni produttive, in cui si intraprendono azioni e dove si utilizzano le evidenze sperimentali per sviluppare spiegazioni sul fenomeno scientifico oggetto di studio.

Le domande investigabili, quindi, sono quelle che comportano una scoperta attiva della risposta (Harlen, 2001).

Saper formulare domande di questo tipo è un’abilità che si acquisisce gradualmente e attraverso la pratica continua. Formulare domande che siano investigabili, infatti, non è per nulla semplice e, nelle fasi iniziali di un percorso di insegnamento basato sull’Inquiry, può anche capitare di bloccarsi e sentirsi frustrati.

L’ideale a cui tendere, poi, è che siano i ragazzi stessi a formularle ma questo richiede molto lavoro visto che gli studenti tendono a formulare domande che iniziano con perché (“Perché le piante crescono?”, “Perché i vulcani eruttano?”, “Perchè ci sono le stagioni?”) e come tale non sono direttamente investigabili.

Al momento, però, mi concentrerò esclusivamente sulle caratteristiche delle domande investigabili in modo che abbiate le idee chiare prima di approcciarvi alle domande formulate dai ragazzi.

Krajcik, Czerniak e Berger (1999) hanno identificato tre categorie di domande investigabili:

  1. domande descrittive;
  2. domande di relazione;
  3. domande di causa-effetto.

Domande descrittive

Sono domande il cui scopo è produrre descrizioni qualitative o quantitative di un oggetto, un materiale, un organismo o un fenomeno. Questo genere di domanda solitamente ha una formulazione di questo tipo:

  • Quali sono le caratteristiche di…….?
  • Quanti….? Quanto spesso….? Quanto…?
  • Cosa accade quando……? (contesto naturale implicito; cambiamento non imposto)
  • Cosa accade se…. (quando si cambia qualcosa)

Ad esempio:

  • Quale tipo di cibo mangiano gli uccelli?
  • Lo zucchero si scioglie in acqua?
  • Cosa accade se metto le piante al buio?

Domande di relazione

Sono quelle che identificano associazioni tra le caratteristiche di fenomeni diversi. Possono includere:

  • domande di identificazione e classificazione: in cui si devono identificare fenomeni e porli in gruppi significativi;
  • domande focalizzate sulla comparazione: in cui si devono mettere in ordine (in serie)  un gruppo di materiali sulla base di specifiche caratteristiche;
  • domande di correlazione: in cui si devono esaminare in che misura la presenza di una variabile è collegata a quella di un’altra variabile (e non confermare relazioni di causa-effetto)

Questo tipo di domande può essere formulata in uno dei modi seguenti:

  • In che modo…. è simile/diverso da….?
  • In che modo questi …. sono organizzati in gruppi?
  • Quale … (materiale/organismo/ecc.) è il più… (assorbente/forte/miglior conduttore/ecc.)?
  • In che modo … è collegato a …?

Ad esempio:

  • È più facile generare elettricità statica in un ambiente secco o umido?
  • Quale materiale è più assorbente?
  • In che modo queste foglie sono simili e in cosa sono diverse?
  • In che modo l’altezza di una pianta è collegata al numero delle foglie?
  • Le piante più alte hanno un numero maggiore di foglie?

Domande di causa-effetto

Sono quelle con cui si determina se una o più variabili causano o influenzano una o più variabili di risultato. Possono includere domande tipo:

  • Il/la …  causa/influenza …?
  • In che modo …. influenza ….?

Ad esempio:

  • La luce del Sole influenza la crescita delle piante?
  • In che modo la temperatura influenza la velocità con cui il sale si scioglie nell’acqua?
  • In che modo la temperatura influenza la velocità di una reazione chimica?
  • In che modo il pH influenza l’attività di un enzima?

Per concludere, che fare di tutte queste informazioni quando si vuole progettare attività per la fase di Explore?

Una volta individuata l’attività che fa per voi, analizzatela attentamente per verificare innanzitutto se presenta o meno una domanda investigabile e per capire se va bene o meno tenendo presente che:

  • le buone domande investigabili sono interessanti (lo studente sarà interessato a scoprire la risposta a questa domanda?);
  • le buone domande investigabili sono quelle di cui non conosco già la risposta (conoscono già la risposta a questa domanda?);
  • le buone domande investigabili portano a un «piano d’azione»,  ossia un piano di ciò che ho bisogno di fare per rispondere alla domanda, includendo le evidenze che ho bisogno di raccogliere (questa domanda è scritta in modo che sia chiaro cosa ho bisogno di fare/osservare/ misurare/ cambiare/ ecc. per rispondere?)
  • le buone domande di ricerca sono quelle a cui posso rispondere con i materiali disponibili (ho a disposizione ciò che mi serve per rispondere alla domanda?)
  • le buone domande investigabili sono quelle che possono essere completate in un tempo ragionevole (ho il tempo che mi serve per rispondere a questa domanda?)

Se non ne avete già esperienza diretta, avrete, ormai, capito che formulare una buona domanda investigabile non è sempre una passeggiata, nemmeno per un docente (figuriamoci per uno studente) ma con la pratica, ve lo assicuro, diventa sempre più facile.

Una volta che avrete acquisito un po’ di esperienza, il passaggio successivo sarà quello di passare il testimone agli studenti che potrano imparare a formulare da soli le domande da investigare.

Questa è una competenza che per essere sviluppata (e insegnata) necessita di molta pratica. Per fortuna, però, ci sono tecniche che permettono di insegnare ai ragazzi come trasformare le loro domande complesse, o domande “perchè”, in domande investigabili. Se l’argomento vi interessa fatemelo sapere nei commenti e in un prossimo post ve lo racconterò. A presto! 🙂

Per saperne di più:

 

Giocare a OpenCRISPR

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Siamo quasi alla fine dell’anno. La stanchezza dei ragazzi (e non solo) sta portando l’attenzione al minimo sindacale (anche meno). In quinta, poi, è anche peggio. Mentre cerco di tenerli ancorati al lavoro che dobbiamo ancora fare prima di finire, li vedo sognare ad occhi aperti (a volte chiusi), con la mente lontana anni luce da ciò che stiamo facendo in classe.

L’anno scolastico è stato, come sempre, molto impegnativo per loro (e non solo per loro) e ormai la scuola rappresenta l’ultima catena da spezzare prima di poter volare via, finalmente liberi, verso il loro meraviglioso futuro. Nonostante ciò, mi sforzo di tenerli agganciati (senza risultati brillanti) cercando di aiutarli a superare la voglia di mollare tutto e fuggire visto che li aspetta una delle prove più difficili della loro giovane vita: l’esame di Stato.

Fortunatamente, le tecniche, gli strumenti e le applicazioni della biotecnologie sono di per sè affascinanti per cui, attraverso esempi, cerco di far cogliere la rilevanza di tutte queste “informazioni” da apprendere per la loro vita oltre la scuola mostrando, al contempo, anche scenari attuali per possibili professioni da intraprendere.

Sapete quanto io ami i progetti di citizen science. Li inserisco nella mia didattica ogni volta che posso e così ne ho scovato un altro adatto a loro, giovani donne e uomini che potrebbero scegliere di fare della scienza una ragione di vita: il gioco online Open CRISPR creato su Eterna, la piattaforma di gioco di citizen science di Stantford.

Inizialmente lo scopo della piattaforma di gioco era quello di aiutare gli scienziati a comprendere l’RNA, ma poi sono state sviluppati altri giochi tra cui Open TB per sviluppare un nuovo dispositivo diagnostico con RNA per rilevare la tubercolosi nei pazienti utilizzando una sorta di “firma genica” recentemente scoperta e ora Open CRISPR, per progettare una classe di RNA a guida singola (sgRNA) per contribuire a rendere l’editing genetico più intelligente e più sicuro.

CRISPR è un acronimo che sta per Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats, ossia brevi ripetizioni palindrome interspaziate in modo regolare.

Nel 1993, il biologo spagnolo Francisco Mojica ha scoperto che batteri e archeobatteri hanno una forma di immunità adattativa contro le infezioni virali che si basa su brevi ripetizioni palindrome di sequenze di basi di DNA estraneo (ad esempio virale o plasmidico) disposte a intervalli regolari. Ogni ripetizione palindroma è seguita da brevi segmenti di DNA chiamato spaziatore (non codificante) che sono state “strappate” a virus che hanno infettato la cellula in precedenza e poi integrate nel DNA batterico. Vicino alle sequenza CRISPR c’è anche un piccolo gruppo di geni Cas (Cas sta per CRISPR-associated, ossia geni associati a CRISPR), che contengono le istruzioni necessarie per difendere la cellula dall’attacco virale.

spacer acquisition

 

Il ruolo del sistema CRISPR-Cas nell’immunità adattativa

Una volta che il batterio ha acquisito la sequenza di DNA spaziatore nel locus CRISPR, quando lo stesso tipo di virus lo infetta nuovamente il DNA spaziatore viene trascritto in RNA (RNA guida) e questo viene utilizzato dalla cellula per riconoscere il DNA virale della nuova invasione grazie alla complementarietà delle basi.

CRISPR

Non appena le molecole di RNA guida si sono legate al DNA virale, l’enzima Cas9, un’endonucleasi che idrolizza i legami fosfodiesterici tra i nucleotidi del DNA codificato dai geni che si trovano fisicamente vicini alle sequenze CRISPR, si attiva e inattiva il DNA estraneo frammentandolo.

CRISPR-Cas9 ed editing genetico

Dopo anni di ricerche e studi per comprendere il funzionamento del sistema CRISPR-Cas9, nel 2012 Science ha pubblicato lo studio di due scienziate, la francese Emmanuelle Charpentier e l’americana Jennifer Doudna, in cui si dimostra sperimentalmente che è possibile ricreare il sistema CRISPR-Cas9 in vitro, alterare la sequenza dell’RNA guida e indirizzare l’enzima Cas9 verso un preciso punto di qualsiasi DNA (non solo quello batterico) per inserire un nuovo gene o rimuovere un tratto danneggiato o inattivo, aumentando così la possibilità di usare il sistema per correggere alcune mutazioni genetiche che causano malattie.

Jennifer A. Doudna und Emmanuelle Charpentier

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Tante le possibili applicazioni di CRISPR.  Scienziati americani hanno già utilizzato una forma di CRISPR per modificare le zanzare in modo che non possano trasmettere la malaria, altri stanno modificando il riso per resistere meglio alle inondazioni e alla siccità; in Cina hanno ottimizzato un gene nei beagles per renderli più muscolosi…

Nonostante l’iniziale entusiasmo della comunità scientifica, l’uso di CRISPR per curare malattie genetiche dovute a singole mutazioni presenta ancora molte difficoltà  perchè sembra che proteine estranee, come Cas9, possano anche provocare risposte immunitarie durature. La strada è ancora lunga ma piena di promesse.

OpenCRISPR

OpenCRISPR  è un “gioco” progettato per aiutare gli scienziati a rendere l’editing genetico più intelligente e sicuro. Nell’ homepage si legge che la tecnologia CRISPR è un metodo basato su RNA che può indirizzare essenzialmente qualsiasi gene del DNA in un organismo vivente per cambiamenti genetici. Dalla sua prima dimostrazione oltre cinque anni fa, CRISPR ha rivoluzionato la biologia e promette di cambiare il modo in cui si affronta la cura di numerose malattie umane, dalla malaria al cancro.

OpenCRISPR

Il Centro Personal Dynamic Regulomes di Stanford e  l’Innovative Genomics Institute di Berkeley sfidano i giocatori di Eterna a risolvere un ostacolo che rimane ancora da superare per rendere questa tecnologia sicura per l’uso: i ricercatori non sono ancora in grado di controllare il funzionamento di CRISPR perchè non sono ancora in grado di accenderlo e spegnerlo a piacimento.

Lo scopo del gioco, quindi, è quello di riuscire a progettare molecole di RNA guida che funzionino da interruttori del sistema CRISPR. Queste molecole virtuali devono, dunque, soddisfare alcuni requisiti per essere corrette nella forma e potenzialmente efficaci nella realtà.

L’RNA, infatti,  deve essere specifico per una determinata sequenza di DNA, deve essere riconosciuto da CRISPR, deve dirigere il sistema CRISPR-Cas9 al gene target e  deve avere una specie di “tasca” di riconoscimento per piccole molecole che danno il segnale di attivazione del processo.

Il gioco prevede diversi livelli di difficoltà attraverso cui i giocatori possono accumulare punti, acquisire competenze e passare al livello successivo. I più bravi potrebbero vedere realizzate in laboratorio le proprie progettazioni e ricevere un feedback sulla loro effettiva validità in vitro, con la possibilità di interagire con i ricercatori per migliorare il progetto di molecola.

Al momento (30 aprile 2018) il gioco è in fase di “attesa” dei risultati del primo Round. Aspettando la riapertura del Round successivo, i ragazzi possono prendere confidenza con la piattaforma e gli strumenti di progettazione sfruttando i tutorial presenti su NOVA LAB. Non ci resta che cominciare a giocare!

Per saperne di più:

 


Come diventare un superlearner

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Come forse avrete già letto su Facebook qualche settimana fa, ho deciso di dedicare l’estate ad approfondire l’apprendimento (anche dal punto di vista delle neuroscienze) e le possibili tecniche in grado di promuoverlo, col desiderio di iniziare il prossimo anno scolastico riempiendo fin da subito la cassetta degli attrezzi dei miei studenti con qualche strumento nuovo (e che possibilmente funzioni).

Ho così comprato alcuni libri e sono partita con la lettura di quello dal titolo, per me, più accattivante: Become a superlearner – learn speed reading and advanced memorization.

Il libro, scritto da Jonathan Levi insieme ad Anna e Lew Goldentouch, si presenta come un vero e proprio corso in cui il lettore, spezzando le vecchie abitudini di apprendimento e creandone delle nuove, potrà imparare tecniche di lettura veloce che gli consentiranno di trattenere e comprendere le informazioni in modo efficace.

Chi è un superlearner?

Un superlearner viene definito come qualcuno in grado di sintetizzare, comprendere e trattenere una grande quantità di informazioni in un periodo di tempo incredibilmente breve.

Non si tratta “solo” di lettura veloce, quindi, ma c’è molto di più.

Dopo aver letto l’introduzione, ho pensato di fare un esperimento su me stessa. Se prima imparo io per  i ragazzi dovrebbe essere un successo assicurato, no?

Per cui, terminata la scuola, ho deciso di studiare il manuale qualche ora al giorno per vedere di capirci qualcosa. Potevo già vedermi: lezioni nuove ed entusiasmanti preparate con la velocità di Superman, super efficienza e minimo sforzo, studenti felici e preparati (anche dopo un mese dall’interrogazione!) e, ciliegina sulla torta, più TEMPO per me stessa. E così, carica come una molla, ho iniziato la lettura.

copertina libro

La cosa che più mi ha colpito fin dalle prime pagine è stato il fatto che per diventare un Superlearner il lettore dovrà re-imparare  ad imparare. Visto e considerato quanto ci lamentiamo del fatto che i nostri studenti arrivano in quinta superiore senza aver “acquisito un metodo di studio”, il mio cuore ha avuto un sussulto di gioia quando, mentre leggevo, la luce al neon con scritto SPERANZA ha cominciato ad accendersi nella mia testa, ed ero solo a pagina 13!

neon-sign-board-hope

Qualche riga dopo ho trovato anche quali caratteristiche bisogna avere per diventare un superlearner. Pronta a prendere appunti!!!

Servono determinazione (ce l’ho), disciplina (anche!!!) e si deve imparare a utilizzare meglio le funzioni cerebrali (?!?!?) spezzando molte delle vecchie abitudini di apprendimento che ci sono state inculcate in passato e imparando abilità nuove.

Aspetta… Come dice il proverbio inglese?

You can’t teach an old dog new tricks?

old-dog

In effetti sono già un po’ preoccupata… ma mai scoraggiarsi a pag. 13, giusto?

Proseguo e la tenacia mi premia! A pagina 14 trovo: “La frustrazione è normale!

Ok, oltre ad essere un superlearner questo Levi deve avere  anche i superpoteri perché sembra proprio che mi abbia sentito!

“Incontrerai molta resistenza mentre cercherai di rompere le tue vecchie abitudini di apprendimento e questo è okay. Fa parte del processo… devi semplicemente avere pazienza, non abbatterti e tenere bene a mente che molte di queste abitudini sono radicate in te da molti anni per cui sarà perfettamente normale incontrare qualche resistenza e difficoltà lungo il percorso.

La cosa importante sarà dedicare almeno 20-60 minuti al giorno agli esercizi proposti finché si cominceranno a vedere i primi risultati.”

Ok Jonathan, ci voleva, grazie. Avanti tutta allora!

 

Migliora la tua memoria. Costruisci le infrastrutture per il super-apprendimento!

Per poter leggere in modo rapido ed efficace serve una buona memoria.

Accidenti… sono fregata! Se vi dicessi che le mie adorate e adorabili nipoti mi chiamano “zia Dori”?

Come dicevo, per diventare un superlearner per prima cosa  si deve potenziare la memoria che è una infrastruttura necessaria. Senza una memoria appropriata la lettura rapida diventerebbe inutile se non impossibile.

Lo studio mnemonico basato sulla semplice ripetizione può servire per imparare cose semplici come ad esempio alcune convenzioni matematiche. Per informazioni più complesse e/o corpose ci vogliono altri tipi di abilità di memorizzazione.

Per come funziona il nostro cervello, più connessioni ci sono tra i nostri neuroni più è facile non dimenticare. Il cervello, infatti, trattiene solo le informazioni che reputa importantissime, quindi dobbiamo fare in modo di creare quante più connessioni possibili alle informazioni che vogliamo trattenere e imparare.

Scrivere e creare mnemoniche è sicuramente una buona tattica per apprendere. Quando serve, le insegno anch’io ai miei ragazzi.

mnenomica scala di mohs

Per riuscire a ricordare a lungo, però, è necessario:

  • collegare le nuove informazioni ad uno schema mentale preesistente forte, o
  • generare uno schema mentale nuovo e forte mettendo insieme molti pezzi di informazioni correlate tra loro (cool exciting trend) o utilizzando la cosiddetta RIPETIZIONE SPAZIATA, ossia il ripetere poche volte su tempi lunghi, invece di tante volte su tempi brevi (sai che novità!).

Secondo Levi, le IMMAGINI sono il mezzo più potente per ricordare, per cui è fondamentale imparare a trasformare in immagini concetti, idee e altre informazioni importanti non appena abbiamo a che fare con nuove informazioni.

Ma non basta. È anche importante capire anche qual è il tipo di immagine più adatto a noi: stereotipate (da catalogo), personali, fittizie (caricature) o grafiche (disegni).

Quindi si deve cominciare a costruire una specie di nuovo vocabolario mentale non più fatto di parole e significati ma fatto di immagini (chiamate MARKER) per OGNI cosa si voglia ricordare. Più le immagini hanno un significato personale e più a lungo le ricorderemo.

Quindi, vediamo se ho capito: una delle cose da imparare a fare per diventare un superlearner è trasformare ogni singola informazione che si vuole ricordare in una immagine o MARKER visuale.

Secondo l’autore, infatti, le immagini sono più semplici da richiamare delle parole lette o ascoltate. Sono ricche di dettagli come colore, contesto, forma, dimensioni e molto probabilmente consentono un numero maggiore di connessioni neurali perché possono trasmettere emozioni, profondità, interazioni e molto altro. Com’è che si dice? Un’immagine vale più di mille parole, no?

Dimenticavo di dirvi che ciascun capitolo del libro si conclude sempre con un paragrafo dedicato agli homework, compiti da fare assolutamente prima di procedere con la lettura/apprendimento. Se volete farvi un’idea, qui potete trovare il syllabus del corso e le attività proposte per ciascuna sezione.

Per imparare a creare i propri marker e (soprattutto) cercare di capire meglio che cosa sono vengono presentate alcune applicazioni su cui esercitarsi. Vi consiglio, ad esempio, di provare questa: The Short Term Memory Checker

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Si tratta di un gioco a livelli in cui vengono proposte immagini da memorizzare. Per passare al livello successivo, bisogna memorizzare le immagini mostrate e riconoscerle quando vengono riproposte mescolate ad altre immagini.  Apro la schermata del primo livello e ci provo:

short term memory checker

Un cane e una lattina. Ce la faccio. Clicco ok.  Facile dai! Livello 1 superato! 🙂

livello 1

Vado avanti. Ad ogni nuovo livello aumenta progressivamente il numero di immagini proposte. Livello due superato. Ma… come?!?!? Al livello 3 sono già eliminata. 😦

È una questione di dignità. Ricomincio, ma più continuo più mi confondo. Le immagini sono sempre le stesse e le ho già viste talmente tante volte che il mio cervello non riesce più a ricordare QUANDO. Sono davvero senza speranza????

Nel libro, naturalmente, non c’è nessuna indicazione che aiuti le povere Dory come me a saltarci fuori.

Come si fa a ricordare gli oggetti giusti man mano che aumentano? Sono bloccata. Ad un tratto, d’istinto, mi viene un’idea.

Quando il numero di oggetti diventa troppo alto per riuscire a ricordarlo provo a costruirmi una storia basata su questi oggetti… Funziona!!! Non sempre ma…il cervello piano piano si comincia a sbloccare. Quasi quasi… mi esalto!

Le attività proposte per questa sezione sono tre, per niente facili e la consegna è di fare questi esercizi per 10 minuti al giorno fino a che ci si sente più sicuri e solo allora proseguire con la lettura del libro.

Be patient!”

Time running out in hour-glass with nervous figure watching

Sii paziente? Ma come si fa… Non resisto e mentre mi “alleno” proseguo.

 

Usare marker mentali per apprendere

Non tutti i marker devono essere per forza visuali. L’olfatto, ad esempio, è uno dei sensi che permette di ricordare molto più facilmente. Provate a pensare al profumo della cioccolata… quanti dettagli/ricordi vi vengono in mente? Più strade usiamo meglio sarà!

Una volta capito cosa sono i marker, è importante capire cosa farne, ossia come lavorarci per apprendere. Il passaggio successivo consiste, quindi, nell’imparare a associare tra loro i marker generati durante la lettura.

I markers, di solito, vengono raggruppati e lo si può fare per somiglianza o collegandoli direttamente tra loro in quella che viene definita una “linked list”. La cosa importante non è tanto il tipo di raggruppamento che si sceglie ma il fatto che si debba trovare un modo per metterli insieme in modo efficace.

Ad esempio, immaginiamo di aver bisogno di andare al supermercato per comprare 20 cose. Per ricordarci gli articoli della lista, dobbiamo creare 20 marker, uno per ciascuna delle cose che ci servono.

Come si potrebbero raggruppare questi marker per assicurarsi che siano tutti collegati tra loro e non ce ne sfugga nessuno?

Ad esempio, si potrebbe suddividere (CHUNK) la lista di oggetti in dipartimenti: prodotti a base di latte (latte, formaggio e yoghurt), prodotti a base di carne (3 tipi di salsiccia, petto di pollo e manzo) e così via. Si può, poi, cercare di visualizzare i blocchi di prodotti all’interno del supermercato. Poiché ciascun raggruppamento non comprende più di 7 oggetti (numero importante e da non superare) saremo in grado di richiamare alla mente l’immagine per ciascun dipartimento con grande dettaglio.

Oppure…

Si può costruire una storia (Sìììì!!!!) e visualizzare una sorta di animazione con, ad esempio, vostra madre che munge una mucca, prepara il formaggio con il latte, e poi, invece di preparare una marmellata, prepara lo yoghurt perché vostro nipote ha un dente cariato e non deve mangiare dolci. Potreste poi immaginare che vostro nipote abbia perso 3 denti da latte e che questo renda difficile per lui mangiare a morsi la salsiccia. Quindi, vostro nipote si mette a urlare e chiede a vostra madre un petto di pollo, poi improvvisamente corre via e cade sbattendo la testa. Alla fine della storia, vostra madre gli mette una bistecca di manzo congelata sul bernoccolo che si è fatto cadendo.

Questa è una storia ridicola ma proprio per questo facile da ricordare!

Quindi: per ricordare una lista si può suddividere le cose da ricordare in blocchi (chunk) o inventarci una storia. In realtà, però, si dovrebbe imparare a combinare entrambi i sistemi.

La cosa importante  da ricordare è che non bisogna non creare liste con più di 20 oggetti (preferibilmente dai 7 ai 9) né blocchi con più di 7 oggetti (preferibilmente 3-4 al massimo). All’interno di ciascun oggetto della lista, però, si possono poi creare altre sottoliste o raggruppamenti. Ciascun testo che leggiamo, del resto, è organizzato in modo simile:

  • il testo è diviso in sezioni
  • una sezione è suddivisa in paragrafi
  • un paragrafo è suddiviso in frasi.

 

Mai cercare di memorizzare un marker fuori dal suo contesto

Il marker dovrebbe essere ricordato all’interno di un blocco o di una storia e collegato ad altri marker in un’area specifica.

“Questo è un po’ complesso, lo so, ma abbi pazienza.”

Pazienza??? Non credo che sia la pazienza quella che serve qui. Io veramente non ho capito molto bene cosa devo fare e voi?

“Quando cerchi di ricordare un elenco, dovresti visualizzare il primo e l’ultimo nome/oggetto/marker in modo più dettagliato rispetto agli altri marker. Quindi, sarai in grado di ricreare la storia dall’inizio alla fine ma anche a ritroso, ossia dalla fine all’inizio. Non passare troppo tempo a immaginare i marker di mezzo finché non avrai un’unica animazione mentale che collega questi marker a quello che viene prima e a quello che viene dopo.”

Ah bè, ora è tutto più chiaro. O no?

“Questo tipo di visualizzazione è ottima per i marker che rappresentano oggetti fisici ma non funziona molto bene con i concetti  astratti. In quest’ultimo caso si possono visualizzare delle ICONE.”

Per esempio: la guerra può essere rappresentata da due spade incrociate, un contratto con una stretta di mano, la pace con una colomba che porta nel becco un rametto di ulivo…

Il processo di recupero delle informazioni deve essere il più semplice e il meno ambiguo possibile. La cosa importante, però, è continuare ad esercitarsi per cui ecco altri compiti … (comincio a capire sempre di più lo sconforto dei miei studenti!).

Ultimo consiglio prima di avanzare verso la sezione successiva:

usa quanto stai imparando nella vita di tutti i giorni.

Si deve riuscire a creare un’abitudine automatica, una sorta di riflesso, che ogni volta che siamo distratti o ogni volta che ci stiamo imbarcando in un nuovo compito ci faccia creare un marker.

E che ci vuole? È facile! O no?

Restate sintonizzati! Questo era solo il riscaldamento. Se vi va, nelle prossime settimane continuerò a raccontarvi cosa succede e così sarete i primi a sapere come ci si sente mentre (forse?) ci si trasforma in un Superlearner! Ma intanto… buone vacanze a tutti anche da parte del mio (ormai) amico Jonathan!

 

Insegnare ad imparare è possibile!

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Ed eccomi di nuovo qui, travolta dalla ripresa e dai nuovi ritmi ma felice, per davvero.

Non so se succede anche a voi, ma ogni anno pochi giorni prima di rientrare in classe  un’ansia sottile si insinua nella mia mente e mi tiene persino sveglia la notte. Non so proprio per quale motivo questo strano fenomeno si verifichi puntualmente ogni anno ma so, invece, che non appena entro in classe e vedo le facce sorridenti dei ragazzi arriva la gioia e penso: che bello rivedervi! 

Conoscere i “piccoli” poi è stupendo. Sguardi timorosi ti scrutano cercando di capire chi sei ma non appena cominci a “raccontare” si trasformano in sorrisi pieni di speranza e aspettativa e io penso:  ma che bello conoscervi!

Mi ritengo fortunata, davvero. Ogni anno più vecchia, più lenta e più stanca ma grata perché amo i ragazzi e amo insegnare. Sono sicura che sia così anche per voi, cari amici.

L’imparare ad imparare è stato il focus di tutte le mie letture estive e così ho dedicato le prime lezioni a raccontare ai ragazzi come fare ad imparare in modo più efficace. Ecco qui la prima.

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Prima di cominciare ci tengo a dirvi che tutte le cose che sto per raccontarvi potete trovarle in questo bellissimo libro scritto da due americani, una docente di ingegneria esperta di apprendimento e un neuroscienziato: Barbara Oakley e Terry Seinowski.

Se masticate un po’ di inglese lo troverete fantastico, ma intanto proverò a raccontarvi quali preziosi consigli la scienza è in grado di dare per avere successo a scuola senza passare tutto il tempo a studiare. Non dico che sarà facile e molto dipenderà da voi ma vale la pena provare, no?

Cosa significa imparare per voi? Cosa fate quando volete o dovete imparare qualcosa?

Forse state attenti in classe durante la spiegazione, leggete con attenzione il libro e poi fate gli esercizi che vi vengono assegnati.

Funziona sempre il vostro sistema? Cosa fate quando invece non riuscite a capire qualcosa? Vi capita mai di arrabbiarvi e arrendervi?

Arrabbiarsi, come ben sapete, serve a poco. Invece, vi basterà comprendere alcune cose sul funzionamento del cervello e potrete imparare molto più semplicemente e con meno frustrazione. Non ci credete?

Voglio dirvi una cosa che forse vi sembrerà un po’ strana.

La scienza ha dimostrato che per riuscire a pensare in modo più chiaro quando si sta studiando qualcosa o si cerca di risolvere un problema difficile, a volte, abbiamo bisogno di perdere la concentrazione.

Aspetta… cosa?

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No, non sono impazzita! Avete sentito bene!

I neuroscienziati, ossia gli scienziati che studiano come funziona il cervello,  hanno capito che il nostro cervello lavora sostanzialmente in due modi diversi: in modo focalizzato, cioè concentrato, e in modo diffuso e che entrambe le modalità sono molto importanti per l’apprendimento.

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Cosa vuol dire per il nostro cervello essere in modalità focalizzata?

Significa semplicemente che in quel momento state prestando grande attenzione a ciò  che state cercando di imparare o di capire. Pensate in modalità focalizzata quando state risolvendo un problema di matematica, mentre imparate nuove parole in una lingua straniera o cercate di applicare una nuova regola di grammatica, mentre guardate e ascoltate l’insegnante in classe ma anche mentre giocate a un videogame, o fate un puzzle.

Pensare in modo focalizzato attiva parti specifiche del cervello a seconda di ciò che si sta facendo. Risolvere un problema di matematica, ad esempio, attiva parti del cervello diverse da quelle usate quando si parla in una lingua straniera.

Quando dovete imparare qualcosa di nuovo, quindi, per prima cosa dovete imparare a concentrarvi intensamente per attivare le parti del cervello che vi servono in modo che il processo di apprendimento abbia inizio.

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Il cervello entra in modalità diffusa quando non state pensando a niente di particolare, quando sognate ad occhi aperti o scarabocchiate su un foglio per divertirvi. In modalità diffusa, la mente è rilassata e libera e utilizza parti diverse del cervello rispetto a quando, invece, vi state concentrando su qualcosa.

Quando il nostro cervello è in modalità diffusa accede più facilmente a risorse come l’intuizione in cui i pezzi di informazione analizzati in precedenza  in modo logico e sequenziale vengono in qualche modo riorganizzati in modo più creativo finendo spesso per fornirci una nuova prospettiva per la soluzione del problema che prima non riuscivamo a trovare.

Sembra anche  che la creatività salti fuori proprio quando siamo in modalità diffusa.

Avete presente i flipper?

Se ricordate, il gioco funziona così: si tira indietro un pistone, lo si lascia andare e una pallina che viene lanciata fuori rimbalza tutt’intorno, contro dei bersagli, accumulando punti.

Secondo Barbara Oakley pensare ad un flipper può aiutare a capire meglio come funzionano le due modalità in cui lavora il cervello.

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E’ come se nel nostro cervello ci fossero due tipi diversi di flipper: uno in cui i bersagli che la pallina deve colpire sono molto vicini tra loro, l’altro in cui i bersagli sono invece distanti. La struttura del flipper con i bersagli ravvicinati simula i nostri pensieri quando siamo molto concentrati su qualcosa, mentre la struttura del flipper con bersagli distanziati tra loro riproduce bene la modalità diffusa in cui i pensieri tracciano piste più ampie colpendo meno bersagli lungo il tragitto.

Quando si sta imparando qualcosa di nuovo, ad esempio state imparando ad usare una formula matematica per la prima volta, e siete in modalità focalizzata la vostra pallina-pensiero traccia delle piste ravvicinate e in un’area ristretta. Ogni volta che utilizzerete nuovamente quella formula che avete imparato i vostri pensieri si muoveranno lungo le stesse piste che sono state tracciate nel vostro cervello la prima volta.

Il nostro cervello è in grado di concentrarsi sui dettagli, ossia essere in modalità focalizzata, oppure può vedere il quadro d’insieme, avere una visione più ampia delle cose, ossia essere in modalità diffusa.

La scienza ci dice, però, che se si è in modalità focalizzata non si può essere in modalità diffusa e viceversa: sembra che le due modalità non possano coesistere contemporaneamente. È come osservare una moneta: puoi vederne una faccia o l’altra, ma mai entrambe contemporaneamente. Il fatto di essere in una delle due modalità, quindi, sembra che limiti la possibilità di accedere all’altra.

Se passare da una modalità all’altra è così importante nell’apprendimento, come si fa a farlo?

In realtà, entrare in modalità focalizzata è abbastanza semplice. Basta iniziare a concentrarci su qualcosa ed è fatta!

Il vero problema è mantenere a lungo la concentrazione.

Lo sapete bene anche voi. Mantenere a lungo la concentrazione su qualcosa è difficile e faticoso e proprio per questo a volte ci mettiamo a sognare ad occhi aperti, ossia entriamo in modalità diffusa.

Tornando all’analogia dei flipper, funziona così: finché si usa il flipper a bersagli ravvicinati, ossia finché si resta concentrati, la nostra mente resta in modalità focalizzata, ma se ci si distrae un attimo, la pallina/pensiero perde energia e cadendo passa nel flipper a bersagli distanti, ossia entra subito in modalità diffusa.

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Quindi per entrare in modalità diffusa basta non concentrarsi su niente di particolare, andare a fare una passeggiata, guardare fuori dal finestrino di un autobus, fare una doccia o dormire.

Sembra anche che concentrarsi su qualcosa di diverso possa portare temporaneamente in modalità diffusa su ciò su cui non ci si sta più concentrando.

Da quanto è emerso sinora dagli studi scientifici, infatti, sembra che quando ci concentriamo su una cosa nuova, di fatto smettendo di concentrarci su ciò che stavamo facendo prima, il nostro cervello entri in modalità focalizzata sulla cosa nuova ma in modalità diffusa su quella vecchia.

Provo a farvi un esempio. Immaginate di dover risolvere un problema di matematica e di trovarlo difficile. Ci provate a lungo ma a un certo punto vi bloccate e non riuscite più ad andare avanti. Forse vi innervosite, smettete di lavorare sul problema e vi mettete a fare qualcos’altro, per esempio i compiti di storia. Mentre il cervello entra in modalità focalizzata sui compiti di storia, allo stesso tempo passa in modalità diffusa relativamente al problema di matematica. Ma la cosa più incredibile è che in modalità diffusa, il cervello sta, in realtà, continuando a lavorare anche sul problema di matematica, guardandolo da una prospettiva diversa e allargata, creando nuove connessioni neurali, viaggiando lungo percorsi nuovi. Quando lo riprenderete in mano potreste scoprire di esservi sbloccati o di essere riusciti per lo meno a capire da dove è necessario partire per trovare una soluzione! Vi è mai successo?

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Potrebbe capitare che mentre cercate di risolvere un problema di matematica o un esercizio di scienze o state facendo una versione di latino vi blocchiate e che la frustrazione aumenti sempre più fino a trasformarsi in rabbia. Perché succede?

Solitamente i motivi sono due:

  1. avete perso la spiegazione iniziale. Sfortunatamente con questo tipo di «blocco» entrare in modalità diffusa non serve a molto perché non avete “caricato” nulla in modalità focalizzata. La cosa migliore che potete fare in questo caso è tornare indietro, cercare esempi e spiegazioni sul libro o chiedere all’insegnante di rispiegarvelo ancora. Potete anche cercare un video di spiegazione su YouTube ma mi raccomando di non lasciarvi distrarre da altri video;
  2. oppure, nonostante vi siate concentrati con attenzione, ossia avete lavorato in modalità focalizzata, siete comunque bloccati e non sapete come andare avanti. La frustrazione aumenta e vi chiedete perché non ci riuscite.   Il motivo è che non avete ancora dato al cervello la possibilità di aiutarvi in modalità diffusa. Ricordate? La modalità diffusa non può attivarsi finché continuate  a rimanere concentrati su  qualcosa.

Secondo le ricerche sembra, però,  che concentrarsi su qualcos’altro possa portarci temporaneamente in modalità diffusa relativamente a ciò che ci sta bloccando. Avete quindi due possibilità: fate una pausa, magari facendo merenda con qualcosa di sano, o vi concentrate su qualcos’altro. Se siete bloccati su un problema di matematica, ad esempio,  mettetevi a fare  i compiti di grammatica o di storia.

Quando siete in modalità diffusa il cervello continua a lavorare con calma, in sottofondo, anche se spesso non ne siete consapevoli e può trovare nuove idee per risolvere il problema.

 Ricordate però che il cervello ha anche bisogno di riposare un po’.

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Quando si fa una pausa quanto deve essere lunga?

In realtà questo dipende da voi e da quante cose dovete fare per finire i compiti. Solitamente 5/10 minuti sono un tempo ragionevole. Se avete molto da studiare cercate di non fare pause troppo lunghe. È meglio finire presto e avere tempo per rilassarvi dopo!

Ciò che sembra aiutare di più quando si vuole dare al proprio cervello la possibilità di lavorare in modalità diffusa dopo aver lavorato a lungo in modalità focalizzata è:

  • fare esercizio fisico (sport, passeggiata, nuotata)
  • ballare!
  • fare un giro in bicicletta
  • disegnare o dipingere
  • fare una doccia
  • ascolta musica (soprattutto senza parole)
  • suonare uno strumento
  • dormire (la modalità diffusa per eccellenza!)

Questo per oggi è tutto! Ma se la cosa vi interessa, ora che abbiamo gettato le basi, nel prossimo post vi racconterò cosa fare concretamente per studiare “presto e bene”.

Buon nuovo inizio a tutti voi! 🙂

Studiare in modo efficace

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Soffrite di rimandite?

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Niente paura! Benvenuti nel club dei procrastinatori.

La seconda lezione su neuroscienze e metodo di studio l’ho iniziata così.

Procrastinare significa rimandare sistematicamente a più tardi qualcosa che dovrebbe essere fatto.  È un problema comune a giovani e meno giovani.

Perché fare qualcosa che non si ha voglia di fare, soprattutto se sai che sarà anche difficile farla?

Perché studiare il lunedì per una verifica che sarà venerdì? Tanto dimenticherai tutto!

Nessuno meglio di Tim Urban sa spiegare cosa accade nella mente di un procrastinatore per cui vediamo insieme il suo TED-talk.

Che c’è di male a procrastinare?

Se procrastini è probabile che non avrai più abbastanza tempo per imparare in modo appropriato e inoltre sprecherai energie preoccupandoti. Questa è una situazione senza via d’uscita: ne usciresti comunque sconfitto!

Perché procrastiniamo?

Quando pensi a qualcosa che non ti va di fare o non ti piace c’è una zona del tuo cervello che si chiama corteccia insulare che inizia a farti male!

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Le ricerche hanno mostrato che quando inizi a pensare che devi aprire i libri o devi metterti a pulire la tua stanza c’è un’area del cervello, la corteccia insulare appunto, che sperimenta dolore e comincia ad attivarsi. Per il tuo cervello, quindi, cominciare a studiare è come avere mal di stomaco. Sì hai capito bene!

La cosa interessante, però, è che dopo circa 20 minuti che hai iniziato a fare ciò che non volevi fare il dolore scompare! La corteccia insulare si calma non appena inizi un compito che stai evitando. È come se fosse felice che finalmente ti sei messo al lavoro!

Quindi per imparare ad imparare per prima cosa devi tenere duro e smettere di procrastinare! Ma come si fa?

Comincia con un POMODORO!

No, non devi farti un’insalata! La tecnica del pomodoro è un modo per smettere di procrastinare inventato negli Stati Uniti, negli anni ’80, da Francesco Cirillo, studente universitario italo-americano oggi sviluppatore di software ed imprenditore di successo.

Terminata l’euforia degli esami del primo anno F.C. è entrato in un periodo di scarsa produttività e grande confusione. Ogni giorno andava all’università, seguiva le lezioni, studiacchiava quando tornava a casa con la sensazione di non aver combinato nulla. Le scadenze degli esami erano sempre più vicine e gli sembrava di non saper come fare per difendersi dal tempo che passava. Osservando i compagni di università più produttivi, si rese conto che le sue numerose interruzioni e distrazioni e lo scarso livello di concentrazione e motivazione erano alla base del problema. Fece una scommessa con se stesso sfidandosi a studiare bene per 10 minuti senza interruzioni e decise di affidare il compito di «tutore del tempo» ad un timer a forma di pomodoro che aveva nella sua cucina. Francesco non riuscì subito a vincere la scommessa, anzi ci volle tempo e molti sforzi ma alla fine il meccanismo del pomodoro lo aiutò a migliorare il suo processo di studio e poi quello lavorativo arrivando pian piano  a mettere a punto quella che poi è diventata la tecnica del pomodoro oggi famosa in tutto il mondo.

Da: The Pomodoro Technique di Francesco Cirillo

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Come si fa?

  1. Allontana tutte le distrazioni: il telefono, la TV, la musica, tuo fratello, qualunque cosa o persona possa distrarti. Trova un posto tranquillo dove non verrai interrotto. Se non hai un posto così potresti provare ad usare i tappi per le orecchie.
  2. Imposta il timer per 25 minuti (se non ti piacciono i pomodori potresti provare a far crescere un albero con FOREST). Se hai 10-12 anni potresti iniziare con 10-15 minuti.
  3. Vai avanti e concentrati su ciò che devi fare meglio che puoi (metti il cervello in modalità focalizzata!)! 25 minuti non è un tempo troppo lungo. Puoi farcela!
  4. Ora viene la parte migliore. Dopo 25 minuti di studio fai una pausa e premiati con una pausa di 5-10 minuti permettendo al tuo cervello di entrare in modalità diffusa. Guarda un video, ascolta un po’ di musica, e magari balla! Oppure gioca con il tuo cane, fai una chiacchiera con i tuoi amici. La ricompensa è la parte più importante dell’intero processo. Sapere che c’è un premio ad aspettarti aiuta il tuo cervello a concentrarsi meglio.

Ricorda! Durante i minuti di pausa cerca di fare qualcosa che usi parti diverse del cervello. Ad esempio se stai scrivendo una relazione NON scrivere post su Facebook o Instagram. La pausa migliore è quella in cui ti alzi e ti muovi!

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Come si studia 

  1. Picture-walk: sfoglia il capitolo prima di cominciare a studiare. 

    Prima di tutto, osserva brevemente  tutte le figure, le didascalie, i diagrammi, i titoli dei paragrafi, le parole in neretto, il sommario e le domande di fine capitolo (se ci sono). Questo serve per dare al tuo cervello un’idea di ciò che stai per affrontare, per cominciare ad organizzare  i pensieri. È come vedere un’anteprima di un film o consultare una mappa prima di partire per un viaggio. Questa pre-lettura ti permetterà di organizzare meglio i pensieri quando leggerai in modo più focalizzato.

  2. Ingoia il rospo! È meglio cominciare la sessione di studio con l’argomento/compito più difficile o che ti piace di meno. In questo modo, potrai fare una pausa e lavorare su qualcos’altro se ti dovessi bloccare permettendo al tuo cervello di lavorare in sottofondo in modalità diffusa aiutandoti a «scollarti» da lì quando ci ritornerai su. Se poi dovessi finire subito senza nemmeno esserti bloccato ti sentirai alla grande perché ti sarai già tolto il pensiero!
  3. Leggi in modo attivo!  Inizia a leggere senza avere fretta di finire. Torna indietro se pensi di non aver capito bene qualcosa o se ti sei distratto. Distrarsi è normale e non significa essere meno intelligente. Qual è la domanda a cui ciascun paragrafo risponde? C’è qualcosa che non hai capito bene? Attenzione a tutte le parole in neretto o a ciò che viene messo in evidenza con caratteri o colori diversi. Annota alcune parole o le idee che ritieni importanti nel margine del libro o su un foglio di carta. Se ne hai bisogno sottolinea UNA parola o DUE, ma non molte altre.
  4. Punto cruciale: active recall! Ripeti in modo attivo. Chiudi il libro o il quaderno e vedi cosa ti ricordi. Quali sono le idee chiave della pagina? Ripetile a mente o ad alta voce cercando di ricordarle senza avere il libro aperto davanti a te. NON rileggere semplicemente più volte la stessa pagina e NON sottolineare o evidenziare grandi quantità di testo.  Le ricerche hanno dimostrato che se quando studi usi questa tecnica, al momento della verifica o dell’interrogazione avrai risultati migliori anche se sei sotto stress.
  5. Usa la tecnica del pomodoro. Questa tecnica ti permette di attuare anche un’altra strategia molto potente quando si tratta di organizzare il lavoro/studio in modo efficace: spezzetta un compito grande in pezzi più piccoli (chunking down) che percepiamo così come maggiormente fattibili e sotto il nostro controllo.
  6. Continua a ripassare! Richiama alla mente ciò che hai studiato diverse volte nel tempo e cerca di farlo in posti diversi (ad esempio mentre aspetti un amico, o sei sull’autobus o prima di andare a letto). Ci sono 2 buoni motivi per farlo: non hai davanti né il libro né gli appunti e ti stai veramente sforzando di ricordare ciò che sai senza poterci dare una sbirciatina; non sei nel tuo solito ambiente di studio. Imparare in luoghi diversi può «incollare» in modo più duraturo le informazioni nella tua memoria.
  7. Stabilisci un “quitting time”. Anche se hai tante cose da fare datti un tempo di «chiusura» e rispettalo. Questo ti aiuterà a mantenerti concentrato e ti darà anche il tempo di rilassarti un po’.
  8. Niente schermi retroilluminati prima di andare a dormire!  Prima di andare a dormire, se vuoi, puoi dare un’ultima occhiata ai tuoi appunti ma EVITA ASSOLUTAMENTE di usare qualunque dispositivo retroilluminato (cellulare, computer, tablet) per almeno un’ora o due prima di andare a letto. Gli schermi retroilluminati inviano segnali luminosi al tuo cervello che dicono «svegliati») e questo può renderti difficile addormentarti. Dormire è il modo migliore per far lavorare il cervello in modalità diffusa e fissare ciò che hai studiato durante il giorno.

Se vuoi avere molti altri preziosi consigli leggi il libro di Barbara Oakley e Terry Seinowski ma nel frattempo goditi anche il suo Ted-talk!

Teachable moments: il terremoto del 28 settembre in Indonesia

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Cari amici, stavo preparando le lezioni sui terremoti della settimana prossima quando ho pensato che probabilmente vi avrebbe fatto piacere conoscere una risorsa, di cui non vi ho ancora parlato, estremamente utile e affidabile.

Sono abbastanza sicura che la maggior parte di voi conosca già il sito dell’IRIS (Incorporated Research Institutions for Seismology) che offre tantissime risorse didattiche sui fenomeni sismici. Non tutti sanno, però, che all’interno del sito, c’è anche una sezione chiamata “Recent Earthquake Teachable Moments” in cui potete trovare praticamente in tempo reale presentazioni con dati scientifici di grande valore e di facile comprensione sugli eventi sismici più recenti.

Le presentazioni di IRIS Teachable Moments permettono, quindi, all’insegnante di cogliere al volo opportunità non pianificate per spiegare i fatti scientifici di terremoti degni di nota stimolando, al contempo, il pensiero critico dei ragazzi.

Questo servizio dell’Università di Portland e di IRIS Education and Outreach fornisce mappe e sintesi tettoniche regionali USGS interpretate, animazioni al computer, sismogrammi, foto e altre informazioni specifiche dell’evento. Le presentazioni sono prodotte entro poche ore dall’evento e sono preparate da sismologi ed educatori. Sono un prodotto già pronto da portare in classe che, però, può anche essere personalizzato.

Inoltre, se vi iscrivete al servizio vi arriverà una notifica ogni volta che vengono pubblicate nuove presentazioni.

Nei prossimi giorni, gli eventi drammatici accaduti in Indonesia appena due giorni fa saranno sicuramente oggetto di domande e curiosità da parte dei ragazzi e dovranno, naturalmente, essere esplorati e discussi.

Ed è proprio grazie alla mail ricevuta qualche ora fa dall’IRIS che ho potuto scaricare una presentazione relativa al sisma che ha così duramente colpito, ancora una volta, l’Indonesia.

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La prossima settimana, quindi, la mostrerò ai ragazzi: discuteremo e chiariremo i dati presentati e ci eserciteremo un po’ sull’inglese scientifico facendo, così, anche una piccola lezione CLIL.

Devo confessarvi che le  presentazioni reperibili sul sito sono di grande aiuto anche per me perchè mi permettono di approfondire alcuni aspetti tecnici con un linguaggio, però, abbastanza semplice.

Ho pensato, quindi, che potesse essere utile anche a voi!

Buona nuova settimana! 🙂

 

Altre risorse sui terremoti nel blog:

IBSE e progettazione a ritroso per una valutazione efficace

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Iniziare con in mente la fine significa iniziare con una chiara comprensione della propria destinazione. Significa sapere dove si sta andando così da meglio comprendere dove ci si trova ora, in modo che i passi che si fanno vadano sempre nella giusta direzione.

Stephen R. Covey, The seven habits of highly effective people, 1989, p.98

Progettare percorsi di apprendimento efficaci e significativi è una delle principali sfide che dobbiamo affrontare ogni anno. Non è possibile riproporre le lezioni dell’anno precedente come se si inserisse il pilota automatico. I nuovi studenti saranno sicuramente molto diversi dai ragazzi che li hanno preceduti in quella classe e anche gli studenti “più vecchi” saranno cresciuti e sicuramente cambiati. Insomma, lo sappiamo bene: quello che ha funzionato (o funziona) con una classe non è detto che sia altrettanto efficace con un’altra. Anzi, a dirla tutta, non succede quasi mai.

E allora, come ogni anno, ogni volta che sto per iniziare un nuovo segmento del mio percorso, riprendo in mano l’impianto precedente e ci lavoro ancora un po’. Elimino ciò che non mi aveva convinto fino in fondo e cerco nuove idee per potenziare ciò che invece funziona bene.

Il punto dolente di tutta la faccenda, però, non è tanto trovare nuove attività per coinvolgere ed entuasiasmare i ragazzi (la rete è piena di idee), ma è cercare di capire come progettare le attività in modo da poter anche verificare in modo efficace che i ragazzi abbiano davvero imparato.

Da tempo ritengo che la progettazione a ritroso sia uno strumento davvero forte in tal senso.

Grant Wiggins e Jay McTighe sostengono che spesso gli insegnanti iniziano a progettare partendo dai libri di testo, dalle lezioni preferite, dalle attività consolidate nel tempo, invece di farle derivare dagli scopi che ci si prefigge come meta. In quest’ottica, gli autori ritengono che sia meglio iniziare dalla fine (i risultati desiderati, gli obiettivi prefissati) per poi ricavare il curricolo dalle evidenze dell’apprendimento (le prestazioni). La programmazione dovrebbe quindi derivare dai modi più efficaci di raggiungere risultati specifici e non dai metodi, dai libri e dalle attività con cui ci sentiamo più a nostro agio.

Questo approccio alla progettazione viene definito a ritroso perché prevede che l’insegnante pianifichi il percorso di apprendimento partendo dalla definizione di ciò che merita di essere appreso. In realtà, si tratta di un approccio perfettamente in linea con il senso comune, ma è considerato a ritroso rispetto alle abitudini convenzionali.

Questo modo di procedere, pur avendo molti aspetti in comune con la progettazione tradizionale per obiettivi/competenze, contiene alcuni elementi innovativi o comunque poco consueti, che ne rappresentano il valore aggiunto. Nella progettazione a ritroso, invece di pensare alle modalità di accertamento e valutazione alla fine di una unità di studio o di un percorso, o di affidarci semplicemente ai test allegati nella guida per gli insegnanti del libro di testo che potrebbero non accertare in modo completo o appropriato obiettivi/competenze rilevanti, bisogna rendere operativi gli obiettivi/competenze in termini di evidenze di accertamento nel momento in cui iniziamo a costruire un’unità o un corso di studio, ossia prima di cominciare a pianificare le esperienze di apprendimento e di insegnamento.

Questo processo ci obbliga, così, a iniziare dalla domanda: quali sono le evidenze di conseguimento delle competenze desiderate che sono disposto ad accettare?

Secondo gli autori, partire dalle evidenze di apprendimento non solo aiuta a chiarire a se stessi gli scopi da perseguire, ma produce come risultato anche obiettivi di apprendimento e di insegnamento definiti con maggiore chiarezza, cosa che negli studenti favorisce prestazioni migliori dal momento che conoscono con maggiore chiarezza l’obiettivo che devono raggiungere.

Se la progettazione a ritroso è, quindi, un modo “forte” di progettare, allo stesso tempo, come sapete bene, insegnare scienze per me significa solo una cosa: IBSE.

L’IBSE è incredibilmente potente e più passa il tempo più ne sono convinta. Inoltre, il suo impianto concettuale si sposa perfettamente con molte tecniche didattiche innovative e non (apprendimento cooperativo, didattica digitale, flipped classroom…) consentendo di promuovere conoscenza, comprensione, competenze e pensiero critico in molteplici modi, andando incontro, così, agli stili di apprendimento più diversi dei ragazzi.

IBSE e progettazione a ritroso possono camminare insieme, anzi sono un connubio perfetto e non solo solo io a pensarlo.

Se ricordate, un po’ di tempo fa vi avevo consigliato la lettura di un libro di Rodger Bybee, “The BSCS 5E instructional model – creating teachable moments“, in cui l’autore racconta come fare a implementare in classe  il learning cycle delle 5E per creare momenti di apprendimento (che io definisco “magici”) in cui gli studenti, e gli insegnanti, siano completamente coinvolti.

Ebbene, secondo Bybee quando si progettano unità inquiry-based attraverso il learning cycle delle 5E è bene seguire anche le tre fasi della progettazione a ritroso di Wiggins e McTighe:

  1. individuare i risultati desiderati
  2. determinare le evidenze di accettabilità dell’apprendimento (performance expectations)
  3. pianificare le attività di istruzione.

Ciò ci aiuterà a progettare percorsi di apprendimento avendo un’idea molto chiara di ciò che gli studenti dovranno fare per dimostrare la loro comprensione e, di conseguenza, rinforzerà l’aspetto più critico e delicato del percorso: la valutazione.

Secondo Bybee, il learning cycle delle 5E fornisce un modo pratico di applicare il processo della progettazione a ritroso:

Ubd e 5E

Ecco, amici, questo sarà il filo conduttore del mio lavoro per questo nuovo anno scolastico: migliorare la valutazione mettendo a sistema la progettazione a ritroso con il learning cycle delle 5E. La prossima settimana comincerò a pubblicare esempi di programmazione e valutazione. Vi piace l’idea?

Per approfondire:

Quando la coperta è corta ma ti va bene così

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É tanto che non scrivo, lo so. Ogni settimana mi riprometto di farlo perchè avrei tantissime cose da raccontarvi ma poi le giornate, le settimane finiscono e la pagina del computer è rimasta bianca. Qualche settimana fa mi è capitato di rifiutare una proposta interessante che ho ricevuto. Perchè? Per colpa del tempo, anzi della mancanza di tempo. Non ho abbastanza tempo per fare tutto ciò che dovrei e vorrei.

La persona con cui stavo parlando mi ha chiesto come mai non mi decido a chiedere il part time, come fanno molti colleghi, in modo da poter conciliare scuola, formazione/collaborazioni. Già, me lo sono chiesta molte volte anch’io. Perchè non mi decido a farlo? Potrei, ad esempio, avere più tempo per fare più attività di formazione o per scrivere. Forse per via dello stipendio più basso e dei contributi in meno versati? Mi è stato detto che per lo stipendio non avrei dovuto preoccuparmi perchè tanto quello che verrebbe a mancare lo si compensa con ciò che proviene da corsi e/o collaborazioni. In fondo, è allettante, perchè non farlo?

Tra un paio di giorni è il mio compleanno e saranno 54. Sono tanti, troppi. Il fatto è che mi sono accorta di essere arrivata ad un punto della vita in cui le domande che mi faccio tendono a diventare “cosmiche”, perchè sembrano celare il senso della vita e sento il bisogno urgente di darmi delle risposte. Mi sono chiesta molte volte perchè continuo a vivere così, sempre in debito di ossigeno, sempre di corsa per non arrivare in ritardo sugli impegni presi, sempre in affanno ma con un libro in mano per continuare a studiare, a crescere, a imparare. Sono stanca? Sempre.  Allora perchè?

Ho la risposta, sapete? Mi è arrivata come un dono, all’improvviso, un pomeriggio di ottobre quando ho iniziato un nuovo progetto con un gruppetto di ragazzi nella mia scuola: un TEDEd Club.

La notte prima, devo confessarlo, non sono riuscita a dormire. Ho già tante, troppe, cose in ballo. La “rivoluzione IBSE” della mia prassi didattica, in fondo, è solo all’inizio e c’è ancora tanto lavoro da fare. Chi insegna le nostre materie sa che ci viene richiesto di insegnare di TUTTO, ma proprio di tutto,  e come tale mi servirà tantissimo tempo e tanto lavoro extra prima di aver riprogettato tutte le mie unità. Sto anche lavorando ad un nuovo progetto editoriale, faccio corsi, mi aggiorno, studio. Insomma, come molti di voi, faccio una vita assurda. Arrivo al sabato che a volte non so più come mi chiamo. Per cui, iniziare qualcosa di assolutamente nuovo anche per me e che mi avrebbe richiesto molte altre energie mi spaventava davvero. Avevo paura di non farcela. Un TEDEd Club richiede tanto impegno e dedizione non solo da parte del leader del Club (io) ma anche dei ragazzi.

Quel pomeriggio, però, è successo qualcosa e improvvisamente ho capito perchè non riesco, anzi proprio non voglio ridurre le ore a scuola.

Dopo aver richiesto e ottenuto da TED l’autorizzazione a costituire un Club nella mia scuola ho iniziato il percorso formativo che prevede 13 workshop che porteranno alla progettazione e alla realizzazione  di video talk da parte dei singoli studenti:

  1.  Settimana introduttiva: Qual è la tua passione?
  2. Cosa rende una grande idea… grande?
  3. Esplora e dichiara la tua idea!
  4. Come Presentare I: Comprendere l’inizio, la metà e la conclusione.
  5. Come presentare II: Rivelare, presentare e inquadrare la tua idea
  6. Come presentare III: Visualizzare la tua idea
  7. Come presentare IV: Creare (e poi distruggere) i tuoi visual
  8. Come liberarsi delle cattive abitudini
  9. Come cogliere un’idea: Video, illuminazione e suono
  10. Cantonate, parlantina, blocchi e punti di svolta: Una prova generale!
  11. Presentazioni finali: La tua idea da diffondere
  12. Guarda la registrazione delle tue presentazioni
  13. Carica e nomina la tua presentazione

Il fatto è ciascun ragazzo, per fare tutto ciò, deve imparare a guardarsi dentro mettendosi in gioco davanti agli altri. Il primo workshop era, quindi, il più critico: potevano fidarsi, entusiasmarsi e restare o potevano avere paura e rinunciare.

Ho preparato l’incontro con molta cura, ma avevo paura. Sarei riuscita a far sentire loro che questo viaggio che avremmo potuto fare insieme valeva la pena?

Ogni workshop prevede un momento finale di “public speaking” e in quel primo incontro ho chiesto loro di trovare almeno tre cose in grado di appassionarli e di riflettere su cosa lavorare insieme nel club avrebbe potuto dare loro.

Li osservavo mentre riflettevano e scrivevano. Si agitavano, si preoccupavano e la mia ansia cresceva. Ho chiesto troppo, li perderò, ho pensato.

Quando poi, a turno, si sono alzati in piedi e hanno condiviso col gruppo il prodotto della loro riflessione è stata PURA MAGIA. Credetemi, ho fatto un grande sforzo per trattenere le lacrime e non mostrare tutta la mia commozione davanti a loro, anime belle di giovani donne e uomini che ho il privilegio di accompagnare per qualche anno della loro vita.

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In quel momento ho ricevuto un dono e ho trovato anche alcune delle risposte che stavo cercando. Perchè faccio tutto questo? Si tratta di AMORE. Amore, sì, verso questo nostro mestiere difficile, non sempre compreso, spesso bistrattato, ma pur sempre meraviglioso. Credetemi non si tratta di sentimentalismo o di frasi fatte.

Ogni mattina vado a scuola, mi metto in gioco e mi sento privilegiata perchè ho la possibilità di fare qualcosa di davvero importante anche se tutto ciò mi richiede tanto impegno e fatica.

Il poeta, artista di strada, Ivan Tresoldi tempo fa ha scritto qualcosa di meraviglioso su un muro della darsena di Milano:

Chi getta semi al vento farà fiorire il cielo

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Ecco, è questo facciamo noi insegnanti. Gettiamo semi al vento e quasi mai abbiamo il privilegio di veder fiorire il cielo. Ma quando accade, è pura magia che ti riempie il cuore e ti ripaga di tutto.

Ecco cari amici, ora sapete perchè non sempre ho il tempo di scrivervi per condividere con voi attività nuove ma oggi, in questa domenica di dicembre, ho sentito l’urgenza di aprirvi il mio cuore per condividere qualcosa di diverso: la gioia che si prova quando si diventa consapevoli della bellezza di questo meraviglioso mestiere che abbiamo il privilegio di fare.

La coperta è ancora corta, lo so, e questo non cambierà. Sarò sempre in affanno, non sempre riuscirò a fare tutto ciò che vorrei, come scrivervi ad esempio, ma una cosa l’ho capita: in fondo, a me va proprio bene così.

Fatto è meglio che perfetto

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“Quando fai una cosa devi farla bene!”  Verissimo, ma a volte questo modo di vedere le cose, questa tendenza al perfezionismo, può diventare una trappola. Qualunque cosa farai non ti sembrerà mai abbastanza buona, nè sarà mai perfetta.

Questa sorta di autotrappola in cui cadiamo è, a mio avviso, una delle principali cause di immobilismo e di procrastinazione nella vita ma anche a scuola.

Leggiamo qualche libro interessante, seguiamo qualche corso con qualche docente super brillante, innovativo ed energizzante (Chiara Beltramini e Mauro Sabella giusto per citarne un paio che hanno questo effetto su di me), che ci ispirano e ci fanno venire voglia di cambiare il mondo (se non proprio TUTTO il mondo almeno il nostro piccolo mondo scolastico), siamo a casa  felici, carichi, ci sediamo alla scrivania e… stop. Bloccati.

Troppo difficile! Da dove comincio? È tutto meraviglioso ma ora sono qui, da sola, e non so da che parte cominciare. Per non parlare, poi, che adesso sono troppo impegnata, lo farò sicuramente ma è meglio studiare la questione un altro po’, giusto per rinforzare le basi e ripartire più sicura. Ci riprovo più avanti, dai…

Ma il momento giusto non arriva mai. Vi è mai capitato? Lo ammetto, forse ho un po’ esagerato ma capite cosa intendo, vero?

Il vero problema, amici miei, che blocca ogni forma di cambiamento nella scuola non è la pigrizia degli insegnanti (come qualcuno pensa), nè la loro incapacità (come qualcun altro sostiene) ma spesso è la paura di non essere abbastanza perfetti.

Non ridete, ma penso che in qualche modo, il nostro lavoro assomigli a quello degli attori di teatro. Ogni giorno “andiamo in scena” con il nostro repertorio, il nostro “masterpiece”, e cerchiamo di interpretarlo bene, senza annoiarci visto che lo ripetiamo di anno in anno, ma soprattutto senza annoiare il nostro pubblico. Devi, quindi, essere preparato e, se non hai i geni del sadico, devi cercare di essere brillante, di tenerli sul pezzo con ogni strategia possibile (o almeno provarci), altrimenti il tuo pubblico si addormenterà (mi è successo!) e non è bello.

A differenza di quanto può accadere agli attori, però, se il nostro pubblico si addormenta o esce dal teatro/aula disinteressato o, peggio, confuso è un guaio serio: niente apprendimento, noia, insuccesso.

Vi state chiedendo cosa mi sono bevuta, eh? 😉

Scusatemi, amici, arrivo al punto. Sono sempre stata la paladina dei cambiamenti a piccoli passi, lo sapete, ma in questi giorni ho capito che a volte non sono i piccoli passi da fare a bloccarci sulla strada del cambiamento ma la paura di non farcela perchè non siamo abbastanza bravi.

Credo di avervi già detto mille volte che per me l’apprendimento delle scienze attraverso una didattica attiva, nel mio caso specifico attraverso l’approccio IBSE, sia LA via per un apprendimento realmente significativo e sapete bene anche quanto tempo ed energie questo tipo di cambiamento ci richiede.

Per il fattore “energie” non ho ancora trovato una soluzione, ma per quanto riguarda il fattore tempo, quello in classe intendo, una soluzione ci sarebbe ed è sotto gli occhi di tutti da molto tempo. Sto parlando della didattica capovolta o flipped classroom.

Ho letto tanto sull’argomento, ho fatto anche un corso nella mia scuola alcuni anni fa, ho continuato a seguire Jon Bergman (uno dei fondatori delle Flipped Classroom) facendo anche un paio di suoi corsi. Insomma… come in cucina (chi mi conosce bene potrà confermare) so tutto sulla flipped classroom (finalità , tecniche, strumenti…) ma “cucino” molto poco e con scarsi risultati. 🙂

In passato, ho fatto qualche timido tentativo ma mi sono lasciata scoraggiare dal fatto che non sono molto brava nell’editare video, che temo di non essere abbastanza brillante ma soprattutto detesto apparire. Vedere la mia faccia sullo schermo e sentire la mia voce in un video è sempre un’ esperienza imbarazzante (traumatica?). Per cui, fino ad ora, ho capovolto le lezioni usando dei testi scritti (che comunque funzionano abbastanza) o utilizzando i video di altre persone, magari in inglese, con la scusa del CLIL (botte piena e moglie ubriaca).

Jon Bergman, però, dice sempre che è importante usare i propri video, perchè non solo continua a rinforzare la relazione con i tuoi studenti ma ti permette di modellare il percorso secondo le tue necessità, le cose che ritieni più importanti o gli stimoli più adatti per i tuoi studenti. Insomma, se vuoi che funzioni meglio devi metterci la faccia (in tutti i sensi!).

Per quanto riguarda l’IBSE quest’anno mi sto dedicando (a piccoli passi) a quella che ritengo la sfida più difficile: l’anatomia e la fisiologia. C’è molto poco che possiamo fare per sperimentazione diretta in quest’area (a proposito avete idee o attività da suggerirmi?) quindi ho deciso di concentrarmi sull’adattamento di casi clinici o attività in stile POGIL.

È difficile trovare casi di studio adatti o trasformare cose che magari trovo online, ma la cosa più difficile è trovare il modo di avere abbastanza tempo per lavorare su queste esplorazioni IN CLASSE in modo da poter lavorare direttamente con i ragazzi che non diventano più semplici spettatori ma attori protagonisti del loro apprendimento.

Il mese scorso ho preparato le presentazioni, il testo del video, ho scelto le immagini in creative commons… insomma ero pronta a registrare video su tessuti e apparato tegumentario ma poi … ho trovato mille buoni motivi per non farlo e mi sono ripromessa che ci avrei riprovato con l’argomento successivo.

Poi, durante queste vacanze, mi sono chiesta cosa mi bloccasse davvero e ho capito che si tratta di paura e non mancanza di tempo (anche se questo è sempre davvero poco). Paura di non essere abbastanza brava/capace/interessante/brillante/…(aggiungete voi qualunque cosa e andrà bene).

Ma è davvero così importante essere perfetti? Se è così, amici, meglio mettersi seduti e rassegnarsi perchè la perfezione non arriverà mai (parlo di me, naturalmente).

Il punto è un altro. Forse bisognerebbe chiedersi: perchè voglio farlo?

Io ho voglio farlo perchè funziona, mi serve, mi permette di spremere dal tempo che ho a disposizione tutto il meglio che posso avere. Poco importa allora se i miei video non sono perfetti, se qualche volta inciampo nel parlare, così come farei in classe del resto, se  i capelli non sono a posto, se l’audio non è professionale… Sono semplicemente un’insegnante che prova a fare del suo meglio per i suoi studenti.

Quindi mi sono fatta coraggio, mi sono seduta davanti allo schermo e mentre mi ripetevo, come un mantra, una frase ormai celebre, fatto è meglio che perfetto (done is better than perfect), ho sciacciato il tasto play della videocamera.

Ecco, quindi, cosa è diventata la mia unità sul sistema scheletrico dopo qualche piccola modifica rispetto all’anno scorso.

ENGAGE: in classe (alla fine della lezione di riepilogo dell’argomento precedente) mostro alcune immagini di astronauti che si allenano nello spazio e discutiamo insieme dei possibili effetti dell’assenza di peso sull’organismo. Per casa, assegno la visione del primo video in cui spiego loro le caratteristiche fondamentali del sistema scheletrico: le funzioni, l’anatomia, la classificazione delle ossa in base alla forma, l’organizzazione strutturale dell’osso, i quattro tipi di cellule del tessuto osseo, il rimaneggiamento osseo, la differenza tra tessuto osseo compatto e spugnoso e l’ossificazione.

I ragazzi non dovranno limitarsi a guardarlo ma dovranno prendere appunti per realizzare una mappa concettuale di quanto trattato e prepararsi a discuterla in classe rispondendo ad alcune domande, annotando anche tutto ciò che non risulta chiaro.

La lezione successiva, quindi, inizieremo dalla discussione delle mappe e proseguiremo con l’attività di EXPLORE/EXPLAIN sull’omeostasi del calcio in stile POGIL. Queste prime attività richiederanno circa due ore di lezione. Alla fine dell’attività, per casa i ragazzi dovranno vedere il secondo (e ultimo) video in cui faremo il punto di quanto discusso ed esplorato in classe: gli effetti della mancanza di peso sulle ossa degli astronauti, gli effetti dell’esercizio fisico e dell’alimentazione sulle ossa, osteoporosi, calcemia e regolazione dell’ omeostasi del calcio.

Per la fase di ELABORATE, invece, dividerò la classe in tre gruppi sottoponendo lo studio di tre casi su diversi aspetti legati all’osteoporosi tratti dal database del National Center for Case Study Teaching in Science dell’University at Buffalo in cui potranno applicare quanto imparato e allo stesso tempo approfondire alcuni aspetti medici sicuramente interessanti.

La prossima settimana sperimenterò le modifiche fatte al mio percorso. Non sarà perfetto, però sono felice perchè trovato il coraggio e l’ho fatto. Non vedo l’ora di vedere come andrà!

Buon nuovo inizio a tutti voi! 🙂

 


Qualche volta è bello anche “vincere facile”

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Ci sono volte in cui progettare attività di Explore sembra una missione impossibile e poi ci sono volte in cui è la cosa più semplice del mondo. Oggi è stata una di quelle volte.

Niente salti mortali nè effetti speciali ma una piccola e semplice investigazione sui fattori che influenzano l’attività degli enzimi.

La settimana scorsa, in quinta, ho cominciato a gettare le basi per quella che sarà un’unità sulla biochimica della cellula e così ho ripreso alcune informazioni di base sull’energia nelle reazioni biochimiche, sul ruolo dell’ATP e sono quindi arrivata agli enzimi. In classe ho ripreso e approfondito (queste cose le avevamo già affrontate in seconda anche se in modo più semplificato) cosa sono gli enzimi e i meccanismi della catalisi enzimatica.

Tutto molto “tradizionale” lo so, ma ecco un piccolo spiraglio di didattica IBSE che compare oll’orizzonte. Evito di spiegare almeno i fattori che influenzano l’attività enzimatica (temperatura e pH) e li porto direttamente in laboratorio in modo che possano esplorare la questione direttamente.

Qui mi limito a spiegare che studieremo l’enzima catalasi (una perossidasi) che agisce come catalizzatore nella trasformazione del perossido di idrogeno (H2O2), comunemente denominato acqua ossigenata, un potente e potenzialmente pericoloso ossidante, in acqua e ossigeno molecolare.

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La reazione della decomposizione dell’acqua ossigenata catalizzata dalla catalasi è la seguente:                                                       

L’acqua ossigenata è un prodotto secondario nocivo di molti normali processi metabolici, perciò deve essere convertito in altre sostanze meno pericolose prima che possa causare danni alle cellule, ai tessuti o agli organi. Gli animali usano la catalasi in tutti gli organi ma questo enzima è presente ad alta concentrazione specialmente nel fegato. Una discreta quantità di catalasi è presente anche nella patata e nel lievito di birra.

Spiego quindi che ciò che dovranno fare sarà investigare la seguente domanda: in che modo la temperatura influenza l’azione dell’enzima catalasi?

Divido i ragazzi in 4 gruppi (questa classe per fortuna è poco numerosa) e fornisco a ciascun gruppo i seguenti materiali:

Materiale occorrente: (per ciascun gruppo)

  • 7 provette
  • portaprovette
  • acqua ossigenata al 3% (circa 20 mL)
  • una patata cruda
  • un frammento di fegato di bovino o pollo
  • lievito di birra disidratato
  • mortaio con pestello
  • un coltello
  • una grattugia
  • un becher (per bagnomaria) riempito con acqua del rubinetto
  • un becher per sciogliere il lievito in acqua del rubinetto
  • piastra elettrica
  • pinza di legno
  • termometro
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Fornisco anche una scheda con il protocollo da seguire per l’investigazione.

Procedimento:

  1. Mettere un pezzettino di fegato nel mortaio e ridurlo in poltiglia. Sbucciare la patata e raschiare in un piattino una piccola quantità di polpa. Sciogliere il lievito secco in un becher con acqua del rubinetto.
  2. Siglare le provette con un pennarello con le lettere A, B, C, D, B’, C’, D’.
  3. Riempire per circa 1/3 la provetta A di acqua ossigenata. Mettere nelle provette B e B’ una piccola quantità di poltiglia di fegato e nelle provette C e C’ una piccola quantità di patata grattugiata e D e D’ del lievito sciolto in acqua (le quantità di fegato, patata e lievito devono essere all’incirca uguali).
  4. Portare ad ebollizione dell’acqua in un becher all’ebollizione e  poi spegnere la piastra. Misurare la temperatura dell’acqua, immergervi le provette B’, C’ e D’ e lasciarvele per 10 minuti.
  5. Scrivere sulla scheda cosa pensate che accadrà (previsione) quando verserete l’acqua ossigenata nelle provette B, C  e D che contengono rispettivamente il fegato, la patata e il lievito crudi.
  6. Scrivere nella prima colonna della tabella il contenuto di ciascuna provetta. Ad esempio: provetta A – acqua ossigenata.
  7. Mettere nelle provette B e C la stessa quantità di acqua ossigenata (riempire la provetta per circa 1/3). Osservare attentamente cosa accadrà e registrare le vostre osservazioni nella tabella.
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8. Con la pinza di legno, togliere le provette dal magnomaria (fare attenzione a non scottarsi!) e trasferirle nel portaprovette accanto alle provette B, C e D e lasciarle raffreddare.

9. Scrivere sulla scheda cosa pensate che accadrà (previsione) quando verserete l’acqua ossigenata nelle provette B’, C’ e D’ che contengono rispettivamente il fegato, la patata e il lievito cotti.

10. Mettere nelle provette B’, C’ e D’ la stessa quantità di acqua ossigenata (riempire la provetta per circa 1/3). Osservare attentamente cosa accadrà e registrare le osservazioni nella tabella.

ANALISI:
  1. In che modo la temperatura influenza l’azione dell’enzima catalasi? Supportare la risposta con le evidenze raccolte.
  2. La previsione iniziale riguardo le provette B, C e D concorda con le osservazioni? (motivare le proprie affermazioni)
  3. La previsione iniziale riguardo le provette B’, C’ a D’ concorda con le conclusioni? (motivare le proprie affermazioni)
  4. Qual è il ruolo svolto dalla provetta A?

Le cose hanno funzionato davvero bene e i ragazzi sono tornati in classe contenti. Prima della discussione in classe, però, per casa affronteranno un’altra attività di tipo sperimentale basata però sull’analisi di dati che provengono da un esperimento che testa la relazione tra pH e attività enzimatica.

La prossima lezione discuteremo quanto emerso e potremo proseguire il nostro viaggio verso il metabolismo del glucosio con uno studio di caso in cui utilizzeremo fonti primarie di informazione per scoprire come si è arrivati a comprendere i meccanismi della respirazione cellulare. Ma questa è un’altra storia e, se vi interessa, ve la racconterò la prossima volta. 🙂

 

Come produrre ATP, ovvero comprendere la natura della scienza

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Lo so può sembrare un paradosso, sono una biologa e un’insegnante di scienze ma io la natura della scienza ho cominciato a comprenderla veramente solo da quando l’IBSE è entrato nel mio modo di vedere l’insegnamento. Anzi, a dirla tutta, so anche qual è stato il momento esatto in cui ho cominciato a capire che in tanti anni, in realtà, non avevo ancora capito niente: era il 2012, ero a Dublino  alla Establish and SMEC Conference e stavo partecipando ad un workshop proprio sulla natura della scienza con William McComas.

Da allora, riconosco di aver fatto un po’ di strada, diciamo che sono migliorata, e non perdo occasione per far esplorare la scienza ai miei ragazzi con gli occhi di chi la scienza l’ha fatta o la fa.

A rischio di apparire monotona (giuro che non sono sponsorizzata!), voglio parlarvi ancora una volta del National Center For Case Study Teaching in Science (NCCSTS). Qui potete trovare una grande varietà di  casi di studio da usare tal quali (traducendoli in italiano o usandoli direttamente in inglese con i ragazzi più grandi) o semplificandoli un po’. Il punto di forza dell’NCCSTS è che propone attività con cui gli studenti possono esplorare fenomeni di varia natura attraverso casi di studio reali, che li incuriosiscono e coinvolgono anche a livello personale.

La biochimica che si fa nelle classi quinte dei licei scientifici non è una passeggiata per i ragazzi. A seconda di come gliela proponi, però, può diventare un faticoso, quanto inutile, esercizio di memoria o una bella occasione per guardare a ciò che siamo e a come funzionioniamo con gli occhi dello stupore e della meraviglia. Esagerata? Forse, ma ogni volta che rifletto, ad esempio, su come fanno le cellule a fare quello che fanno e su come facciamo a saperlo, io guardo il prodotto della ricerca scientifica come potrei guardare un’opera d’arte: con trasporto, meraviglia e riconoscenza.

Il caso di studio che sto utilizzando in questi giorni si intitola “Come creare ATP: tre esperimenti classici in biologia” scritto da Monica L. Tischler del Dipartimento di Scienze Biologiche della Benedictine University di Lisle (USA).

Per come è organizzato, questo caso di studio è anche perfetto per chi come me è un’insegnante sempre più Flipped (anzi Flipped IBSE in realtà).

Il punto di forza di questo caso di studio è che i ragazzi hanno la, sempre più rara, occasione di interagire con i dati che provengono da fonti primarie della letteratura scientifica imparando in che modo gli scienziati hanno determinato che la chemiosmosi fosse respondabile della produzione di ATP attraverso la membrana mitocondriale.

In particolare,vengono utilizzati parti di tre articoli originali che sono stati determinanti negli anni ’50, ’60 e ’70 per la comprensione del meccanismo della sintesi di ATP.

Poichè le attività sono organizzate in modo da poter lavorare in modalità flipped, l’autrice  ha realizzato anche dei brevi video di spiegazione, prerequisiti necessari per poter lavorare sui vari articoli. Ogni video è corredato da brevi domande per controllare la comprensione dei contenuti.

Il caso di studio è scaricabile gratuitamente sul sito ma io voglio raccontarvi come lo sto utilizzando in classe. Io ci sto lavorando con una classe quinta di liceo scientifico per cui useremo il testo direttamente in inglese, ma se foste interessati ad una versione tradotta in italiano potete scrivermi.

Prima di iniziare questo caso di studio, gli studenti dovrebbero conoscere:

  • gli organuli delle cellule eucariotiche
  • la struttura della membrana e le funzioni e le proprietà delle proteine di membrana
  • le modalità di trasporto attraverso la membrana e il concetto di gradiente di concentrazione
  • l’ ATP e la sua funzione all’interno delle cellule
  • gli enzimi
  • la fosforilazione a livello del substrato

La prima parte, da svolgere a casa, prevede la lettura di una introduzione al caso di studio. Io ho deciso di lavorarci dopo aver spiegato glicolisi e ciclo di Krebs per cui il primo e il secondo video di spiegazione proposti dall’autrice a supporto dell’introduzione sono stati soprattutto un modo per cominciare ad entrare nella questione dal punto di vista linguistico.

Introduzione

Per prima cosa i ragazzi apprenderanno quale fosse l’approccio sperimentale dei biochimici nei primi anni del secolo scorso, definito approccio convenzionale o ortodosso, in cui le componenti di un sistema da studiare (enzima, substrato, cofattori) venivano isolate e poi ricostituite per studiarne le reazioni in vitro. Questo è stato un approccio molto efficace che è stato usato per comprendere la maggior parte delle vie metaboliche che conosciamo oggi.

Poi, scoprono che nei primi anni ’40 del Novecento gli scienziati già sapevano che nella cellula l’energia viene accumulata nella molecola di ATP e ripassano il ruolo di questa molecola nel metabolismo cellulare.

Anche se negli anni ’50 usando l’approccio sperimentale convenzionale è stato “decifrato” anche il ciclo di Krebs, ciò che era rimasto ancora da “decifrare” era in che modo nella cellula si formasse così tanto ATP in presenza di ossigeno ma non in sua assenza. Gli scienziati conoscevano i trasportatori di elettroni (NAD+ e FAD) e sapevano che questi coenzimi trasferiscono elettroni ad alta energia a una serie di molecole presenti nella membrana  interna dei mitocondri note come catena di trasporto degli elettroni. In pratica avevano compreso che quando nella cellula è presente l’ossigeno, alla fine della catena questo accetta elettroni e si crea ATP, ma non avevano idea del meccanismo con cui si formasse l’ATP. Si misero, quindi, alla ricerca di  intermedi di reazione ed enzimi che catalizzassero le reazioni.

La ricerca ha dedicato molte energie alla gestione delle difficoltà tecniche che si incontravano quando si cercava di isolare preparazioni di enzimi e ci vollero più di dieci anni per cominciare ad accettare il fatto che l’approccio convenzionale potesse non essere la strada giusta per risolvere questo problema.

Nel 1961, un biochimico inglese, il Dr. Peter Mitchell, dell’Università di Edimburgo, propose un meccanismo che accoppiava il trasferimento di elettroni alla sintesi di ATP. Mitchell suggerì che il flusso di elettroni nella catena respiratoria nelle membrane dei cloroplasti e dei mitocondri trasferisse protoni (H+) contro gradiente di concentrazione per creare un gradiente elettrochimico. Egli ipotizzò che questo gradiente elettrochimico potesse guidare la sintesi dell’ATP attraverso un processo che fu chiamato chemiosmosi. La maggior parte dei biochimici stavano ancora cercando degli intermedi di reazione nella via di formazione dell’ATP e non fu facile per loro mettere insieme i pezzi necessari per accettare la nuova teoria chemiosmotica per la produzione dell’ATP.

Nel 1978, il Dr. Mitchell vinse il Premio Nobel per la scoperta del processo chemiosmotico per la sintesi dell’ATP, che costituì la base per la comprensione dei reali processi della fosforilazione ossidativa al tempo ancora sconosciuti.

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Nel 1979, quasi due decadi dopo, Mitchell rifletté sul suo lavoro pionieristico affermando che nel 1961 c’erano tre domande che avevano ancora bisogno di una risposta prima che la sua ipotesi sulle catene di trasporto degli elettroni sia nei mitocondri che nei cloroplasti potesse essere accettata dalla comunità scientifica: cosa sono, cosa fanno e come lo fanno.

E da qui, inizia ufficialmente il viaggio di scoperta in tre parti. Sempre per casa, per preparare l’esplorazione della prima parte attraverso l’analisi proprio dell’articolo originale di Mitchell, viene proposta la visione di un terzo video, che è una sorta di sinossi dell’articolo che esploreranno.

Parte I – Che cosa sono?

Nel suo articolo, Mitchell ipotizzò l’accoppiamento della fosforilazione al trasferimento di elettroni attraverso una membrana e parla anche di quanto sia diverso dall’approccio “ortodosso” del tempo. Mitchell suggerì che in qualche modo i componenti coinvolti nella sintesi dell’ATP dovessero essere disposti in modo preciso all’interno della membrana per poter trasferire elettroni e protoni attraverso la membrana.

Mitchell presentò calcoli teorici che mostravano come un sistema reversibile ATPasi posizionato in una membrana fosse in grado di separare cariche all’esterno e all’interno della membrana. Sulla base dei suoi calcoli, arrivò a creare un diagramma che  i ragazzi dovranno analizzare rispondendo alle domande proposte.

Mitchell sapeva che diversi inibitori metabolici sono in grado di inibire la fosforilazione ossidativa e per tentativi identificò alcuni dei componenti del suo ipotetico sistema. Arrivò anche a ipotizzare che una flavoproteina, un chinone, e un citocromo fossero elementi importanti nella fosforilazione ossidativa. Sulla base delle conoscenze del tempo, Mitchell collocò queste molecole all’interno o vicino alla membrana del mitocondrio.

I ragazzi dovranno analizzare anche un’altro diagramma presente nell’articolo di Mitchell rispondo ad altre domande che li guideranno nella comprensione della ricerca.

La prima parte dell’attività termina con le parole di Mitchell che conclude il suo articolo affermando:

L’idea alla base dell’ipotesi presentata qui è che se il processo che noi chiamiamo metabolismo e il trasporto rappresentano eventi in una sequenza, non solo il metabolismo può essere la causa del trasporto ma anche il trasporto può essere la causa del metabolismo.”

Mitchell era  consapevole che la sua proposta fosse contraria all’approccio biochimico convenzionale. Naturalmente, ci vollero molti altri esperimenti per spingere la comunità scientifica ad accettare la sua ipotesi.

Ogni parte richiede circa 50 minuti di lavoro per cui alla fine della prima attività si può guardare insieme il quarto video propedeutico alla seconda parte, che dura pochi minuti.

Parte II – Perchè lo fanno?

Nel 1966, alla John Hopkins University, Andre Tridon Jagendorf ed Ernest Uribe fornirono prove dirette che i cloroplasti sintetizzano ATP utilizzando il meccanismo chemiosmotico proposto da Peter Mitchell. I due ricercatori riuscirono a produrre ATP in un sistema sperimentale costituito da cloroplasti di spinaci creando un gradiente di pH attraverso la membrana dei tilacoidi dei cloroplasti al buio, modificando il pH di soluzioni di membrane di tilacoidi e permettendo loro di equilibrarsi. Questi esperimenti mostrarono che differenze di pH (e quindi di cariche) attraverso le membrane potessero portare alla sintesi dell’ATP.

Jagendorf e Uribe isolarono i cloroplasti dagli spinaci e li mantennero al buio in modo che nessuna molecola di ATP si formasse grazie alla luce. Misero, quindi, i cloroplasti isolati in una serie di soluzioni con diversi valori di pH acido e poi aumentarono il pH della soluzione.

A seconda del pH iniziale e finale delle soluzioni, trovarono che si formavano più o meno molecole di ATP. Ipotizzarono, quindi, che quando c’è un gradiente di carica attraverso la membrana (come il gradiente elettrochimico che si genera quando l’esterno e l’interno delle membrane sono a pH diversi) questa sia una condizione ad alta energia che può essere usata per la sintesi di ATP.

In questa seconda parte dell’attività, i ragazzi dovranno, quindi, analizzare un grafico tratto dall’articolo originale che mostra la quantità di ATP che era stata prodotta dai cloroplasti in diverse condizioni di pH iniziali e finali, per cercare di comprendere la relazione che c’è tra la differenza di pH e la produzione di ATP e se ci sia, o meno, una differenza di pH ottimale per la produzione di ATP.

La conclusione di questo articolo è che i cambiamenti di pH possono guidare l’enzima (o gli enzimi) responsabile della sintesi di ATP in assenza di qualunque altro metabolismo. Tempo dopo, altri scienziati determinarono che questo enzima era l’ATP sintasi.

Prima di affrontare la terza parte, gli studenti dovranno prepararsi attraverso un quinto e ultimo video che è una sinossi del terzo e ultimo articolo scritto da Racker e Stoeckenius nel 1974.

Parte III – Come lo fanno?

A partire dal 1974, 13 anni dopo che Mitchell ipotizzò per la prima volta la formazione dell’ATP per chemiosmosi, gli scienziati iniziarono a mettere insieme i pezzi  necessari per dimostrare la teoria. Le membrane sono molto complesse, con molte proteine nel doppio strato fosfolipidico attaccate sia alle superfici interne delle membrane che a quelle esterne.

Alla Cornell University, Efraim Racker e Walther Stoeckenius purificarono le proteine di membrana di un batterio fotosintetico viola, l’Halobacterium halobium. La membrana viola di questo organismo ha solo una proteina, la batteriorodopsina (a quel tempo chiamata proteina viola), che risponde alla luce trasportando protoni. I due scienziati fecero una preparazione di lipidi di soia e vi inserirono la proteina viola creando vescicole artificiali di membrana.

Quando le vescicole di membrana ricevono luce vengono trasportati dei protoni. Quando, invece, le vescicole di membrana non ricevono luce i protoni non vengono trasportati. La concentrazione di protoni nel medium fu misurata in termini di cambiamento di pH.

Ancora una volta i ragazzi dovranno analizzare una immagine e un grafico da cui i dovranno cercare di capire se la a quantità di batteriorodopsina influenzi o meno la quantità di protoni che vengono trasportati e perchè i due scienziati fecero questo esperimento.

Racker e Stoeckenius fecero poi un passo successivo e incorporarono nelle membrane artificiali proteine di mitocondri di cuore bovino. Oggi sappiamo che quelle proteine erano enzimi ATP sintasi. Racker e Stoeckenius furono così in grado di indentificare la formazione di ATP in presenza di luce.

Quando aggiunsero inibitori della fosforilazione ossidativa, non si formò nessuna molecola di ATP, nè se ne formò nelle membrane artificiali senza rodopsina. Ai ragazzi viene, quindi, chiesto di riflettere sul perchè fosse essenziale inserire entrambe le proteine nella membrana.

Questo sistema modello fornì le evidenze definitive che la forza motrice protonica generata dalle reazioni alla luce della batteriorodopsina avesse guidato l’ATP sintasi generando energia cellulare.

A questo punto, spiegherò la versione “moderna” della fosforilazione ossidativa e faremo la quarta e ultima parte dell’attività in cui gli studenti metteranno a confronto il lavoro originale di Mitchell con l’attuale comprensione della chemiosmosi rispondendo a una serie di domande su citocromi, flavoproteine, chinone, formazione di ATP, fonti di elettroni e disposizione spaziale delle molecole della catena di trasporto degli elettroni.

Lo so cosa starete pensando a questo punto: attività complessa e lunga, ma ne vale la pena? Per me assolutamente sì.

Ogni tanto, soprattutto quando si trattano argomenti complessi come questi, è fondamentale dedicare del tempo a come tali conoscenze scientifiche vengano prodotte, soprattutto quando si ha a che fare con ragazzi il cui sguardo è già volto verso il futuro alla ricerca di una vocazione universitaria da seguire.

E voi, che ne pensate?

 

Per saperne di più:

Ricombinare il DNA

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Oggi vi racconto una semplice ma efficace attività che potete trovare sul sito Access Excellence in cui i ragazzi modellizzano le tecniche per creare DNA ricombinante usando enzimi di restrizione e plasmidi.

L’introduzione di geni estranei nel DNA di un organismo permette di far produrre all’ospite (batteri, lieviti, mammiferi) molte molecole utili per la medicina e la ricerca, in quantità sfruttabili.

In questa attività gli studenti useranno enzimi di restrizione, plasmidi e DNA eucariotico per formare un DNA ricombinante contenente il gene per la sintesi dell’insulina.

Gli strumenti di base della tecnologia del DNA ricombinante sono enzimi batterici chiamati enzimi di restrizione. Gli enzimi di restrizione sono un’arma naturale che i batteri hanno per difendersi dall’attacco dei batteriofagi, i virus che infettano i batteri.

Quando un virus infetta un batterio iniettandovi il proprio DNA, gli enzimi di restrizione presenti nel batterio attaccano il DNA estraneo e causano la rottura della molecola in frammenti innocui. Il DNA del batterio, invece, non viene tagliato dagli enzimi perché nei punti bersaglio è protetto chimicamente.

Esistono molti enzimi di restrizione, ognuno dei quali è in grado di tagliare il DNA in corrispondenza di una sequenza di basi specifica e unica per quell’enzima.

I punti in cui viene tagliato il DNA sono chiamati siti di restrizione.

La cosa interessante è che gli enzimi di restrizione estratti dai batteri possono agire sul DNA di tutti gli organismi, quindi anche su quelli delle cellule eucariotiche.

Ciascun enzima riconosce e taglia una corta e specifica sequenza nucleotidica nella molecola del DNA. Il taglio operato dagli enzimi solitamente è asimmetrico e le estremità a singolo filamento dei segmenti ottenuti in questo modo sono dette appiccicose o adesive.

Queste si uniscono spontaneamente con le estremità di altri segmenti a loro volta tagliati con gli stessi enzimi e vi si saldano grazie all’intervento di altre molecole enzimatiche che “cuciono” insieme in modo stabile i frammenti: le DNA ligasi.

Il nuovo DNA, formato combinando insieme frammenti provenienti da specie diverse, si chiama DNA ricombinante e la tecnica è detta, quindi, del DNA ricombinante.

COSA SERVE:

Per ciascun gruppo (fotocopiare su carta di colori diversi):

 

COME SI FA:

  1. Ritagliare le strisce dei plasmidi lungo le linee tratteggiate, attaccarle con il nastro adesivo formando una lunga striscia unica facendo attenzione che le lettere siano tutte disposte nella stessa direzione. Attaccare insieme le due estremità della striscia ottenuta, con la sequenza di basi rivolta verso l’esterno, per formare un plasmide circolare.
  2. Ritagliare le strisce delle sequenze di basi del DNA e attaccarle insieme per formare un’unica striscia lunga. I pezzi devono essere uniti nell’ordine indicato dal numero presente su ogni striscia.
  3. Ritagliare le carte degli enzimi di restrizione. Ogni carta mostra una corta sequenza di DNA che indica la sequenza che ciascun enzima particolare taglia.
  4. Confrontare la sequenza di coppie di basi presenti su una carta-enzima con la sequenza delle coppie di basi del plasmide. Se si trova la stessa sequenza di basi su entrambi, segnare la sequenza sul plasmide con la matita e scrivervi il numero dell’enzima. Fare questa operazione per ciascuna carta-enzima. Alcune sequenze dell’enzima possono non avere una sequenza corrispondente sul plasmide mentre altre potrebbero, invece, avere più di una sequenza corrispondente sul plasmide.
  5. Una volta identificate tutte le sequenze corrispondenti all’enzima sul plasmide, annotarsi quali sequenze degli enzimi sono presenti sul plasmide una volta sola e scartare gli enzimi che tagliano il plasmide nella sequenza di replicazione ombreggiata.
  6. Confrontare le sequenze degli enzimi selezionati con quelle della striscia di DNA cellulare. Identificare gli enzimi che taglieranno il DNA sopra e sotto la sequenza del gene dell’insulina (di colore grigio). Segnare l’area che ciascun enzima taglierà sulla striscia del DNA.
  7. Dopo aver confrontato ciascuna sequenza dell’enzima con la striscia di DNA, scegliere l’enzima da usare per fare i tagli. Lo scopo è quello di tagliare il filamento di DNA il più vicino possibile alla sequenza del gene dell’insulina senza però intervenire sulla sequenza stessa. Tagliare quindi il plasmide e la sequenza di DNA eucariotico in modo asimmetrico come indicato dalla linea rossa sulla carta-enzima.
    8. Attaccare col nastro adesivo le estremità adesive del plasmide alle estremità adesive del gene dell’insulina per creare il DNA ricombinante.

DOMANDE PER LA DISCUSSIONE

  1. Perché è importante trovare un enzima che tagli il plasmide in un unico sito? Che cosa potrebbe accadere se il plasmide fosse tagliato in più punti?
  2. Perché è importante scartare ogni enzima che taglia il plasmide nel sito di replicazione?
  3. Perché potrebbe essere importante tagliare il filamento di DNA il più vicino possibile al gene desiderato?
  4. In questa attività avete incorporato il gene dell’insulina nel plasmide. In che modo il nuovo DNA del plasmide potrebbe essere usato per produrre insulina?

 

Tagliare il plasmide in un solo punto è importante per controllare le variabili che saranno riprodotte. Se l’enzima di restrizione tagliasse più di un sito, allora il plasmide potrebbe ricombinarsi con più frammenti di DNA.

Se nel plasmide fosse tagliato via il sito di replicazione, questo non sarebbe più in grado di riprodursi e di trasferire l’informazione genetica alla cellula ospite batterica.

Per essere sicuri che l’informazione desiderata sia trasferita al plasmide senza aggiungere sequenze extra sconosciute o indesiderabili.

Una volta inserito il gene selezionato, il plasmide diventa il vettore che può trasportare il gene in altre cellule. I batteri che hanno ricevuto il gene estraneo vengono fatti crescere in un terreno di coltura adatto in modo che si riproducano. In breve tempo generano miliardi di discendenti che produrranno quanto codificato dal gene estraneo.

Il gene, riprodotto in un gran numero di copie, si dice che è stato clonato. L’insulina e l’ormone della crescita umani sono stati i primi prodotti farmaceutici ottenuti con l’uso della tecnologia del DNA ricombinante. Prima del 1982, infatti, le principali fonti di insulina erano i tessuti di suini e bovini prelevati nelle macellerie.

Per separare e analizzare i frammenti di DNA così ottenuti si utilizza poi la tecnica dell’elettroforesi su gel che permette di distinguerli in base alle loro dimensioni e cariche elettriche. Interessante sarà sfruttare anche il laboratorio virtuale con cui i ragazzi impareranno ed eseguiranno la tecnica dell’elettroforesi su gel, difficilmente realizzabile nei laboratori scolastici (almeno nella mia!).

 

Una versione un po’ più sofisticata dell’attività la potete trovare qui. Buon divertimento! 🙂

 

 

Aiutare la ricerca sull’Alzheimer giocando a Stall Catcher

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Nei progetti di citizen science chiunque è invitato ad analizzare i dati raccolti dagli scienziati per aiutare ad accelerare la ricerca.

L’Alzheimer è una malattia attualmente senza cura, di cui ancora oggi non si conoscono le cause. Questa è, quindi, un’area di ricerca dove nuove scoperte sono assolutamente necessarie.

I ricercatori della Cornell University stanno investigando una condizione associata con la malattia dell’Alzheimer: la riduzione del flusso di sangue nel cervello. Un problema non piccolo da superare in questa ricerca riguarda  la grande abbondanza di dati che  hanno bisogno di essere analizzati.

L’analisi dei dati raccolti dagli scienziati richiede molo tempo e necessita di un’accuratezza (99%) che i computer non riescono a fornire. Ed è qui che entra in gioco Stall Catcher, un videogioco progettato proprio per aiutare ad accelerare la ricerca sull’Alzheimer risolvendo questa necessità trasformando  l’analisi dei dati in un vero e proprio gioco.

 

Chiunque può essere un catcher così l’affidabilità dei dati, raccolti da non specialisti, viene garantita da algoritmi che combinano risposte di molti soggetti.

La demenza di Alzheimer 

La malattia prende il nome da Alois Alzheimer, uno psiachiatra e neuropatologo tedesco che per primo, nel 1907, ne descrisse  i sintomi e gli aspetti neuropatologici.

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Durante l’autopsia di una donna morta a seguito di una insolita malattia mentale, Alzheimer notò la presenza di ammassi, poi chiamati placche amiloidi, e di fasci di fibre aggrovigliate nel citoplasma dei neuroni, detti grovigli neurofibrillari. Oggi le placche, formate da proteine amiloidi, e gli ammassi neurofibrillari sono considerati gli effetti sui tessuti nervosi della malattia.

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L’esame microscopico autoptico del tessuto cerebrale di un malato di Alzheimer, infatti, mostra accumuli anormali di un piccolo peptide fibrillare, chiamato beta amiloide, negli spazi intorno alle sinapsi (placche neuritiche) e accumuli anormali di una forma modificata della proteina tau nei corpi cellulari dei neuroni (grovigli neurofibrillari ).

In tutte le forme di Alzheimer, placche e grovigli si sviluppano principalmente nelle regioni del cervello importanti per la memoria e le funzioni intellettuali. Nuove techiche di imaging cerebrale, la tomografia a emissione di positroni (PET),  mostrano le placche amiloidi e i grovigli tau evidenziati da un marcatore chimico leggermente radioattivo nelle persone ancora in vita e vengono utilizzate per confermare una diagnosi difficile da effettuare.

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Le cause e i meccanismi di queste anomalie cerebrali  non sono ancora completamente comprese, ma sono stati compiuti grandi progressi attraverso studi di genetica, biochimica, biologia cellulare e grazie a trattamenti sperimentali.

Nei pazienti affetti da demenza di Alzheimer si osserva una perdita di cellule nervose nelle aree cerebrali vitali per la memoria, l’apprendimento e le capacità cognitive superiori. Si riscontrano anche forti riduzioni di molti neurotrasmettitori, le molecole che consentono alle cellule nervose di comunicare tra loro, tra cui acetilcolina, somatostatina, dopamina e glutammato.

Senza neurotrasmettitori i neuroni non funzionano più, per cui si ritiene che i sintomi clinici della malattia siano causati dai danni a questi sistemi.

I sintomi

L’Alzheimer è definita la «malattia delle quattro A».  I primi sintomi della malattia, infatti,  includono una perdita importante della memoria (amnesia), difficoltà nella formulazione e nella comprensione di messaggi verbali (afasia), difficoltà nell’identificazione corretta degli stimoli percettivi (agnosia) e difficoltà nel compiere correttamente alcuni movimenti volontari come ad esempio vestirsi (aprassia).

Con il progredire della malattia, alcuni pazienti presentano gravi disturbi comportamentali e possono persino diventare psicotici. Nelle fasi finali, l’individuo affetto non è in grado di prendersi cura di sé e resta bloccato a letto. I pazienti solitamente  muoiono di polmonite o di qualche altra complicanza legata all’immobilità.

La demenza da Alzheimer oggi colpisce circa il 5% delle persone con più di 60 anni e in Italia si stimano circa 500000 ammalati (fonte: Epicentro).

L’Alzheimer a esordio precoce è una forma rara e prevalentemente ereditaria. Recentemente, gli scienziati hanno identificato le mutazioni associate alla malattia: il gene che codifica per la proteina precursore dell’amiloide (APP) è sul cromosoma 21 e la mutazione sembra che comporti un’alterazione nel controllo della sintesi di questa proteina che sembra essere iperprodotta. In  famiglie con Alzheimer ad insorgenza precoce, sono state identificate mutazioni anche in altri geni come Tau, Presenilin 1(PS1), Presenilin 2 (PS2), Apolipoproteina E (ApoE).

La cura?

I trattamenti attualmente approvati non modificano il decorso della malattia e offrono solo una attenuazione temporanea di alcuni sintomi come agitazione, ansia, comportamento imprevedibile, disturbi del sonno e depressione. Cinque farmaci sono stati approvati dalla FDA per trattare la malattia: quattro impediscono la degradazione dell’acetilcolina, un neurotrasmettitore del cervello importante per la memoria e il pensiero. Il quinto regola, invece, il glutammato, un neurotrasmettitore che può causare la morte delle cellule cerebrali se prodotto in grandi quantità.

Questi farmaci migliorano temporaneamente i deficit di memoria e forniscono un sollievo sintomatico, ma non impediscono la progressione della malattia. Diversi altri approcci, come ad esempio gli antiossidanti, sono ancora in fase di test.

La ricerca

Una serie di esperimenti sui topi mutanti, in cui  sono stati introdotti geni che causano l’Alzheimer, sta dando buoni risultati. Un gruppo di ricercatori del Lerner Research Institute della Cleveland Clinic, in Ohio,  ha recentemente dimostrato che il blocco dell’attività di un enzima chiamato BACE1 è in grado di invertire il processo di formazione delle placche beta amiloidi che caratterizzano la malattia di Alzheimer fino a portare a una loro progressiva dissoluzione, con un discreto miglioramento delle capacità cognitive degli animali.

Questi topi portatori di geni mutanti sviluppano anomalie comportamentali e alcuni dei cambiamenti microscopici nella struttura tissutale che si verificano negli esseri umani. Si spera, quindi, che questi modelli si possano rivelare utili per studiare i meccanismi dell’Alzheimer e testare nuove terapie. Ma siamo ancora molto lontani da tutto ciò.

Negli ultimi anni, si è sviluppato un sempre maggiore apprezzamento per il ruolo sorprendentemente importante che dieta e stile di vita giocano nel determinare il rischio per l’Alzheimer. Sembra che l’attività cognitiva, l’attività fisica e le diete salutari ne riducano il rischio, mentre l’obesità, l’ipertensione, l’ipercolesterolemia, la sindrome metabolica e il diabete lo aumentino. Alcune prove indicano che una gestione efficace di questi rischi cardiovascolari può ritardare l’inizio o rallentare la progressione della demenza.

Studi rencentissimi hanno anche mostrato un possibile collegamento tra Alzheimer e infezioni da funghi mentre una nuova ricerca, sviluppata da Stephen Dominy,  sostiene che la beta amiloide e la proteina tau, finora ritenute causa della malattia, siano in realtà una forma di difesa nei confronti di un’infezione causata da un batterio responsabile della paradontite, il Porphyriomonas gingivalis. Questo batterio è stato, infatti, identificato nel cervello di persone con Alzheimer con maggior frequenza che negli individui sani e la sua inoculazione in topi geneticamente predisposti verso la malattia ha causato un rapido peggioramento dei sintomi. L’azione lesiva si realizzerebbe attraverso la produzione di enzimi tossici, chiamati gingipain.

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Stall Catcher

Prima di iniziare a giocare è bene visitare il sito del progetto e guardare il video che spiega come essere un citizen scientist con Stall Catcher per farsi un’idea generale del gioco ed esplorarlo un po’.

Il gioco consiste nell’ osservare immagini ottenute al microscopio elettronico di cervelli di topi malati dell’equivalente murina dell’Alzheimer per individuare i capillari dove il sangue non scorre più (STALLED) e quelli in cui invece il sangue scorre ancora (FLOWING).

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L’occlusione del 2% dei vasi sanguigni cerebrali comporta una riduzione del 30% del flusso ematico e quindi una scarsa irrorazione del cervello. Il problema vascolare è responsabile di deficit cognitivi importanti e può contribuire anche allo sviluppo della demenza.

Trovare gli stalls può essere entusiasmante per i ragazzi (anche di scuola media) e il gioco può essere giocato su qualunque dispositivo inclusi tablet, smartphone o computer (attualmente l’APP esiste solo per Android).

Mentre gli studenti cercano e identificano gli stalls il loro punteggio aumenta e competono  per la classifica con giocatori di tutto il mondo.

Megathon

Il 13 aprile 2019, nel Citizen Science Day, il gioco si trasformerà in un evento su scala mondiale chiamato Megathon.

Dall’1:30 talle 3:30 PM EST (19.30 ora italiana) biblioteche pubbliche, scuole e altre organizzazioni lavoreranno insieme per analizzare 100000 clip di Stall Catcher, cosa che normalmente richiederebbe ai ricercatori un anno di tempo. Potrete unirvi anche voi con le vostre classi per aiutare tutti insieme i ricercatori della Cornell University a fare un passo in avanti verso la comprensione e la soluzione di questa malattia.

Io ci sarò! E voi?

Per saperne di più:

Perchè Plutone non è più un pianeta?

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Come possiamo classificare i corpi del sistema solare? Cosa possiamo fare per stabilire se uno di questi corpi è un pianeta o meno?

Qualunque classificazione deriva dalla necessità umana di catalogare oggetti, metterli a confronto, individuare caratteristiche comuni per poterne discutere. Uno schema di classificazione viene creato sulla base di caratteristiche che siano osservabili o misurabili. La classificazione può aiutare anche a chiarire le relazioni tra gli oggetti e a volte può rivelare anche qualcosa sulla loro storia o sulle loro origini. A volte, però, emergono nuove informazioni che modificano la nostra comprensione di questi oggetti e delle loro relazioni, di conseguenza anche i nostri schemi di classificazione devono essere modificati in modo che tengano conto di queste nuove informazioni.

Fino al 2006 Plutone era considerato il pianeta più lontano del Sistema Solare ma, a seguito della scoperta di altri corpi simili (tra cui Eris, Quaoar e Sedna) nella cosiddetta fascia di Kuiper, è stato declassato a pianeta nano. In questa attività i ragazi raccolgono e interpretano dati relativi a corpi del nostro sistema solare per comprendere le motivazioni che hanno spinto l’UAI (Unione Astronomica Internazionale) a declassare Plutone a pianeta nano.

In una visione un po’ semplificata del sistema solare gli oggetti possono essere classificati come pianeti, satelliti, comete, asteroidi e oggetti transnettuniani.

In questo sistema solare semplificato valgono le seguenti definizioni:

  • pianeta: corpo celeste non luminoso più grande di un asteroide o di una cometa, illuminato dalla luce di una stella, come il Sole, attorno cui ruota;
  • satellite: corpo celeste che orbita intorno ad un pianeta, chiamato anche luna;
  • cometa: corpo celeste minore, costituito da frammenti non ancora catturati da alcun corpo maggiore, osservabile nella parte della sua orbita relativamente vicina al Sole. È composta da tre parti: il nucleo e la chioma, che insieme formano la testa della cometa, e una coda curva e allungata che emerge dalla chioma quando si trova sufficientemente vicina al Sole;
  • asteroide: corpo celeste minore, detto anche pianetino, che ruota intorno al Sole, con un’orbita che si trova principalmente tra quella di Marte e Giove, con forma irregolare e diametro caratteristico compreso tra poche decine e parecchie centinaia di chilometri.
  • oggetti transnettuniani: qualunque oggetto del sistema solare con tutta o la maggior parte della sua orbita oltre quella di Nettuno. La fascia di Kuiper (una zona del sistema solare che va dall’orbita di Nettuno, che si trova a una distanza di 30 unità astronomiche dal Sole, fino a 55 unità astronomiche dal Sole) e la nube di Oort (ipotetica nube sferica di comete posta tra 20 000 e 100 000 UA  dal Sole, cioè circa 2400 volte la distanza tra il Sole e Plutone) sono nomi di alcune suddivisioni di quel volume di spazio.

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Per prima cosa i ragazzi devono ricercare alcune caratteristiche (diametro in Km, densità in g/cm3, massa in kg, presenza di atmosfera ed eventuale composizione, oggetto intorno a cui orbita, descrizione dell’orbita, distanza media dall’oggetto intorno a cui orbita in km, periodo di rivoluzione in anni, periodo di rotazione in ore, eventuali satelliti noti) dei seguenti oggetti del sistema solare: Mercurio, Venere, Terra, Marte, Giove, Saturno, Urano, Nettuno, Plutone, Eris, Ceres, Tempel 1, Luna, Europa, Encelado, Caronte, Eros, Borrelly, Sedna.

Quindi, organizzano i dati raccolti in una tabella di questo tipo:

Oggetto:                                                                                           Mercurio
Diametro(km) 4800
Densità(g/cm3) 5.4
Massa (kg)                                                                                        3,3 x 1023
Atmosfera? Se sì, composizione elio, sodio, ossigeno
Orbita intorno a… Sole
Descrizione dell’orbita

 

orbita quasi circolare, priva        di eventuali altri corpi di dimensioni confrontabili o superiori
Distanza media dall’oggetto intorno a cui orbita (km) 57 milioni
Periodo di rivoluzione (anni): 0,24
Periodo di rotazione (ore): 1407,5
Satelliti noti: nessuno

In gruppo analizzano attentamente i dati che hanno raccolto sugli oggetti del sistema solare, quindi:

  1. ordinano gli oggetti in base alle dimensioni;
  2. ordinano gli oggetti in base alla distanza dal Sole;
  3. raggruppano gli oggetti secondo la densità;
  4. raggruppano gli oggetti secondo le caratteristiche dell’orbita;
  5. raggruppano gli oggetti secondo il tipo (pianeti, satelliti, comete, asteroidi e oggetti transnettuniani) con un diagramma ad albero.

Poi rispondono alle seguenti domande:

  1. Nel 2006, l’IAU (Unione Astronomica Internazionale) ha declassato Plutone da pianeta a pianeta nano. Secondo voi, quali possono essere le differenze tra un pianeta e un pianeta nano?
  2. Secondo voi gli astronomi potrebbero scoprire altri pianeti nani nel nostro sistema solare? Perché?
  3. Stabilite tre caratteristiche che un corpo del sistema solare deve avere per essere considerato un pianeta. Plutone presenta tutte e tre queste caratteristiche?

 

Dopo aver discusso le risposte, i ragazzi dovranno rifletterete sulle motivazioni effettive che hanno spinto l’UAI a prendere la decisione di declassare Plutone.

L’UAI ha stabilito che, escludendo i satelliti, i pianeti e gli altri corpi del sistema solare debbano essere raggruppati in tre categorie distinte: pianeti, pianeti nani e corpi minori.

Pianeta:

  1. un corpo celeste che orbita intorno al Sole,
  2. ha massa sufficientemente grande per generare una forza di gravità che permetta di acquisire una forma quasi sferica,
  3. ha catturato o espulso tutti i piccoli corpi che si sono venuti a trovare vicino alla sua orbita (dominanza orbitale,
  4. non è satellite di altri pianeti.

Pianeta nano:

  1. un corpo celeste che orbita intorno al Sole,
  2. ha massa sufficientemente grande per assumere una forma quasi sferoidale
  3. non è in grado di dominare da un punto di vista gravitazionale la propria zona orbitale (la sua fascia orbitale non è priva di eventuali corpi di dimensioni confrontabili o superiori)
  4. non è un satellite di altri pianeti.

Tutti gli altri oggetti, ad esclusione dei satelliti, che orbitano intorno al Sole vengono chiamati “piccoli corpi o corpi minori del sistema solare”.

  1. Sulla base di quanto avete imparato, secondo voi la decisione dell’IAU di declassare Plutone a pianeta nano era effettivamente la cosa più logica da fare? Argomentate la risposta.
  2. Tra gli oggetti che avete classificato nell’attività precedente ci sono altri pianeti nani? Argomentate la risposta.
  3. Create un nuovo diagramma ad albero che raggruppi i corpi del sistema solare analizzati alla luce delle nuove informazioni in vostro possesso.
  4. Secondo voi, perchè per gli scienziati è importante catalogare?

Discusse le risposte si è pronti per esplorare le carattetistiche di tutti questi affascinanti corpi!

 

 

 

 

 

 

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