Quantcast
Channel: Blog sulla didattica delle scienze
Viewing all 179 articles
Browse latest View live

Una lezione fatta col cuore

$
0
0

Sarà capitato anche a voi di vedere gli occhi dei vostri studenti brillare per l’entusiasmo. Oggi è stato uno di quei giorni. Nelle ultime lezioni, in quarta, abbiamo fatto l’apparato cardiocircolatorio.

I ragazzi di questa classe sono particolarmente coinvolti e appassionati per cui abbiamo deciso di fare un’esplorazione diretta del cuore di maiale con l’obiettivo di riconoscere le parti anatomiche del cuore e i vasi ad esso collegati e cercare di ricostruire il percorso del sangue attraverso il cuore.

Grazie ad un’alunna (preziosa!!) ne abbiamo recuperati 5 e così tutti hanno potuto osservare bene e “toccare con mano”.

Il giorno prima ho preparato delle tavole anatomiche con immagini plastificate del cuore utili per l’osservazione esterna e in sezione in modo che i ragazzi avessero dei riferimenti durante l’osservazione. Come è facile immaginare, infatti, un conto è studiare l’anatomia del cuore su un’immagine del libro d testo e un altro è cercare di identificare dal vivo le varie strutture… non così automatico, ma nemmeno impossibile.

Cuore

Il pericardio parietale era già stato rimosso per cui non è stato possibile osservarlo. I ragazzi hanno, quindi, iniziato cercando innanzitutto di identificare quale fosse la parte ventrale e quale quella dorsale.

Osservare la superficie ventrale del cuore identificando le arterie

Per identificare quale sia la parte ventrale, si possono cercare due caratteristiche chiave: il grande tronco dell’arteria polmonare che parte dalla parte superiore del ventricolo destro e i lembi delle auricole che ricoprono la parte superiore degli atri. Inoltre, la parte anteriore del cuore è più curva, mentre il lato posteriore è molto più piatto.

Appoggiando, quindi, il cuore sul vassoio in modo da poter osservare la superficie ventrale la prima strutture facilmente identificabile è il solco interventricolare che passa sotto l’auricola destra. In questa posizione, le strutture che si trovano sull’animale a sinistra sono a destra e viceversa.

I ventricoli appaiono ruotati, per cui il ventricolo sinistro si trova dietro il ventricolo destro.

I ragazzi hanno quindi identificato l’atrio destro e l’atrio sinistro.

Le auricole sono due appendici rosate, localizzate anterosuperiormente, che corrispondono alla regione atriale.

Le arterie sono facilmente identificabili: una volta identificato il tronco polmonare, che raccoglie sangue deossigenato dal ventricolo destro portandolo ai polmoni, l’aorta si trova subito dietro.

IMG_6547

L’aorta trasporta sangue ossigenato proveniente dal ventricolo sinistro e si si dirama subito per dare origine al tronco brachio-cefalico, o arteria anonima, (che trasporta sangue all’arto superiore sinistro e alla testa) e all’arco aortico (che trasporta sangue all’arto superiore sinistro, alla testa e a tutto il resto del corpo).

2000px-Gray506_it.svg

Dopo aver girato a sinistra dell’aorta per 4-5 cm il tronco polmonare si suddivide nei suoi due rami terminali: l’arteria polmonare destra e l’arteria polmonare sinistra.

Ho chiesto ai ragazzi di inserire un dito all’interno del tronco polmonare per vedere che si arriva nel ventricolo destro.

Inizialmente mi hanno guardata un po’ “disgustati”, per cui ho detto che avrebbero potuto utilizzare anche una bacchetta di vetro se non se la sentivano, ma poi l’amore per la scienza ha prevalso e nessuno si è sottratto alla prova.

Ripetendo l’esplorazione con l’aorta hanno visto che si arrivava nel ventricolo sinistro.

Ho detto loro di schiacciare il ventricolo sinistro per notare, al tatto, che il suo spessore è maggiore rispetto a quello del ventricolo destro.

Grazie al solco dell’arteria coronaria (anteriore discendente) si può vedere il confine tra i due ventricoli.

Osservare la superficie dorsale identificando le vene.

Siamo quindi passati all’osservazione della superficie dorsale del cuore.

Le due vene principali che entrano nel cuore si trovano nella parte posteriore.

Le condizioni dei cuori, purtroppo, non hanno permesso di osservare bene la vena cava superiore (sul lato destro del cuore in alto) e il foro delle vene polmonari (sul lato sinistro), vasi che portano il sangue ossigenato dai polmoni al cuore.

Inserendo, però, le dita in ciò che restava della vena cava superiore hanno verificato che si arriva nell’atrio destro, ma non hanno potuto identificare il collegamento con la vena cava inferiore.

Effettuare le incisioni

Una volta individuati i vasi abbiamo aperto il cuore per visualizzarne le camere interne.

La prima incisione è stata fatta lateralmente lungo il ventricolo destro (senza arrivare all’apice del cuore) che può essere identificato schiacciando il cuore, in quanto il miocardio della parte destra è molto meno rigido di quello del ventricolo sinistro. Questo taglio ha permesso di vedere la valvola tricuspide, che consente al sangue di scorrere dall’atrio destro al ventricolo destro, le corde tendinee della valvola (sembrano paracaduti) e i muscoli papillary a cui sono ancorate, il tratto ventricolare destro e la valvola polmonare. È stato possibile osservare anche lo spessore della parete muscolare del ventricolo destro.

La seconda incisione è stata effettuata nel ventricolo sinistro sempre lateralmente (senza arrivare all’apice del cuore). I ragazzi hanno eseguito un’incisione longitudinale che si estendeva dal basso verso l’alto del ventricolo sinistro per poi continuare fino all’atrio in modo da poter vedere l’intera parte sinistra del cuore. Anche in questo caso hanno potuto osservare lo spessore della parte muscolare dell’atrio sinistro (più spessa del destro).

cuoreSono state, quindi, individuate le cavità e le rispettive valvole.

Un’altra osservazione interessante e di effetto è stata fatta tagliando il ventricolo sinistro fin dentro all’aorta. È stato, infatti, possibile osservare la struttura interna dell’aorta e la presenza di tre tasche (valvole semilunari) che impediscono il reflusso del sangue quando il ventricolo è rilassato. Nelle due tasche laterali è stato possibile vedere anche le aperture che si collegano alle arterie coronaria destra e sinistra. In questo caso, il foro era troppo piccolo per l’esplorazione con le dita, ma inserendo una bacchetta di vetro in queste aperture hanno potuto verificare che questa ricompariva nel solco coronarico.

Invece del solito report scritto, ho chiesto ai ragazzi di fotografare e filmare quanto più potevano e poi creare delle tavole anatomiche fotografiche in cui inserire “etichette” in corrispondenza delle varie strutture identificate.

Sono stati 50 minuti di lavoro intenso e ricco di soddisfazioni. A volte basta davvero poco per una lezione che resterà impressa nella memoria davvero a lungo, non credete?

Se non l’avete mai fatto potete documentarvi con questo magnifico video:



Una giornata a Pompei

$
0
0

Il 24 di agosto, verso l’una pomeridiana, mia madre lo avverte che spuntava una nube di grandezza e forme inusitate… Si stava alzando una nube, ma senza che a così grande distanza si potesse distinguere l’esatta provenienza (si chiarì poi che usciva dal Vesuvio), e nessun’altra pianta meglio del pino potrebbe riprodurne l’aspetto e la forma. Salendo infatti verso il cielo come sorretta da un immenso tronco, si allargava poi in qualcosa di simile a dei rami, forse perché la potenza del turbine che dapprima l’aveva sollevata si andava spegnendo: priva di sostegno, dunque, o forse anche vinta dal suo stesso peso, la nube si spandeva in larghezza, talora candida, talora sporca e chiazzata a seconda che fosse carica di terra o di cenere.

La morte di Plinio il Vecchio durante l’eruzione del Vesuvio

Epistulae VI, 16    (traduzione di Angelo Roncoroni) 

Turner, Eruzione del Vesuvio, 1817

Turner, Eruzione del Vesuvio, 1817

È tempo di vacanze. Che ne dite di una bella gita fuoriporta?

Se vi va, mettiamo indietro l’orologio e partiamo. Destinazione: Pompei, 27 agosto del 79 d.C., ore 8 del mattino.

No, non sono impazzita. Sto parlando di viaggio virtuale che possiamo fare grazie a una bellissima animazione scovata su Youtube, “A Day in Pompeii”, realizzata da Zero One per uno spettacolo in 3D nell’ambito di una mostra tenutasi nel Melbourne Museum nel 2009.

Questa animazione permetterà ai nostri studenti ( e non solo) di fare un emozionante viaggio indietro nel tempo in cui non soltanto potranno vedere la ricostruzione della famosa eruzione, davvero ben fatta dal punto di vista scientifico, ma potranno persino “sentire” il dramma e la paura che i cittadini di Pompei hanno, purtroppo, sperimentato tanto tempo fa.

L’evoluzione del Vesuvio

Nella fase più antica della sua evoluzione, tra 39000 e 20000 anni fa, si è formato un grande stratovulcano, il Monte Somma. Nei lunghi periodi di quiescenza probabilmente aveva l’aspetto di un cono regolare completamente ricoperto di boschi, con un’ampia depressione circolare alla sommità.

Poi, in tempi più recenti, una violenta eruzione (a lungo identificata con quella del 79 d.C., ma poi risultata più antica) fece collassare la sommità del cono e si formò un’ampia caldera sfondata nella parte verso il mare.

Fu nel 79 d.C. che all’interno della caldera si alzò un nuovo cono vulcanico, il Vesuvio appunto.

Ancora oggi la “montagna” di Napoli presenta, vista dal mare, due cime: una, il Monte Somma, è ciò che rimane dell’orlo della caldera, l’altra è il cono centrale del Vesuvio; tra le due cime si trova l’Atrio del Cavallo, un tratto dell’antico pavimento della caldera.

somma-vesuvio (1)

L’eruzione del 79 d.C

La nube (…) a forma di pino, si sollevava alta nel cielo e si dilatava come emettendo rami

In epoca romana, all’inizio del primo millennio, il Vesuvio non era considerato un vulcano attivo e alle sue pendici sorgevano alcune città, tra cui Pompei ed Ercolano, che fiorirono grazie alla fertilità dei luoghi.

Nel 62 d.C. un forte terremoto scosse l’area vesuviana, provocando il crollo di molti edifici e molti danni anche a Napoli e a Nocera. All’epoca, però, nessuno mise in relazione il forte terremoto con la natura vulcanica dell’area.

Il 24 agosto del 79 d.C., l’eruzione iniziò con l’emissione di un’altissima colonna di ceneri e pomici (fase pliniana), che ricaddero poi a terra anche con meccanismi di flusso piroclastico.

Le pomici caddero su Pompei e invasero Ercolano, con spessori anche di qualche metro.

Seguì poi una fase di calma, durante la quale molti abitanti di Pompei, fuggiti all’inizio dell’eruzione sulle imbarcazioni e lungo la costa, tornarono nella loro città. Questo, purtroppo, segnò la loro fine. 

campania

“Veniva prima spinta verso l’alto da un soffio d’aria e poi, improvvisamente, come vinta dal proprio peso, ricadeva e si espandeva lateralmente.”

Le fasi iniziali dell’eruzione avevano svuotato la camera magmatica (tra 3 e 5 km di profondità). Questo permise l’afflusso delle acque di falda, che trasformandosi istantaneamente in vapore ad altissima pressione provocarono il rigonfiamento del vulcano e una spaventosa esplosione (eruzione freato-magmatica), che coprì tutta l’area con una gigantesca nuvola di cenere nera.

Flussi piroclastici, con meccanismo da base-surge, scesero rapidamente lungo le pendici del vulcano, distruggendo ogni cosa e seppellendo Pompei, Oplonti e Stabia e i loro abitanti.

10

Qualche giorno dopo, invece, Ercolano, risparmiata dalla pioggia di ceneri perché di trovava sottovento, fu sepolta da almeno tre colate piroclastiche ricche di pomici e sature d’acqua che ne mantenne relativamente bassa la temperatura.

Fino a poco tempo fa si riteneva erroneamente che Ercolano fosse stata investita da un lahar ma recenti studi hanno messo in luce la reale natura dei materiali che hanno investito la città.

L’eruzione cambiò la morfologia del vulcano che divenne una vasta caldera con la parete Nord più elevata. L’attuale edificio vulcanico, si formò proprio all’interno della caldera.

Eruzioni successive

Ci sono documentazioni di eruzioni successive nel 472, 1139 e 1631.

Dalla violenta eruzione del 1631 si sono avute fino ad oggi eruzioni relativamente tranquille con emissione di lava, intervallate da brevi periodi di quiescenza, fino all’ultima eruzione del 1944.

Nell’animazione del Museo di Melbourne i ragazzi potranno vedere e sentire proprio tutto: le nubi che scorrono nel cielo, gli uccelli che cantano, i cani che abbaiano, la prima “fumata” del vulcano, i terremoti, le tegole che cadono dai tetti a causa dei terremoti, il cielo che diventa scuro a causa dei detriti vulcanici, l’accumulo di ceneri e lapilli sui tetti delle case, il flusso piroclastico che scende dal lato sinistro della montagna, gli incendi, le case che crollano, il flusso piroclastico che ricopre la città, la fine di Pompei.

Ultimo consiglio: tapparelle abbassate, volume alto, schermo intero e… buon viaggio!

Per saperne di più:


Bere troppa acqua può uccidere?

$
0
0

Ho iniziato con questa domanda la fase di ENGAGE dell’unità sul passaggio delle sostanze attraverso le membrane cellulari.

La domanda li ha un po’ spiazzati. Mi guardano come fossi un po’ matta, ma ormai mi conoscono e sanno che devo avere un asso nascosto nella manica se faccio una domanda del genere. Consegno una scheda con la traduzione di un articolo pubblicato su Scientific American dal titolo “Strano ma vero: bere troppa acqua può uccidere”.

L’articolo racconta di alcuni casi di intossicazione da acqua risultati letali, come ad esempio quello di Jennifer Strange, una donna californiana di 28 anni, che nel 2007 è morta dopo aver partecipato al concorso radiofonico “Hold Your Wee for a Wii“, “trattieni la pipì (wee) per una Wii”, per vincere una console Nintendo Wii per i suoi figli. Durante la gara, dopo aver bevuto circa sei litri di acqua in tre ore, la donna ha iniziato a vomitare, è andata a casa con un forte mal di testa, ed è morta a causa di una intossicazione da acqua.

Jennifer_Strange_family

Leggiamo anche di altri casi, come quello di un ragazzo di 21 anni che nel 2005, presso la California State University, è morto dopo essere stato costretto dalla confraternita a bere quantità eccessive d’acqua o dei ragazzi che assumono ecstasy in discoteca che muoiono dopo aver bevuto grandi quantità d’acqua per reidratarsi dopo una lunga notte di danze e sudorazione.

I ragazzi cominciano a guardare la bottiglietta d’acqua che hanno sul banco con occhi diversi. Sembra che pensino “ci sarà da preoccuparsi?”

Qualcuno interrompe la lettura e dice: “Ma come? Dicono che bisogna bere tanta acqua ogni giorno, mentre queste persone sono morte per aver bevuto tanto! Io bevo tanto in una giornata, corro qualche rischio? Quanta acqua posso bere?”

Lo rassicuro velocemente, chiedendo di portare pazienza e terminare la lettura. Discuteremo di tutti i dubbi e le domande alla fine.

Leggiamo che il rischio di esagerare con l’acqua è tipico anche degli atleti di resistenza. Da uno studio del 2005 pubblicato nel New England Journal of Medicine emerge, infatti, che quasi un sesto dei maratoneti sviluppano un certo grado di iponatriemia, o diluizione del sangue causata dall’aver bevuto troppa acqua.

intossicazione-da-acqua

Cos’è l’iponatriemia?

Letteralmente significa “sale insufficiente nel sangue.” Parlando in termini quantitativi, iponatriemia significa avere una concentrazione di sodio nel sangue sotto 135 millimoli per litro, mentre la concentrazione normale è compresa tra 135 e 145 millimoli per litro.

Casi gravi di iponatriemia possono portare a intossicazione da acqua, una malattia i cui sintomi includono mal di testa, affaticamento, nausea, vomito, minzione frequente e disorientamento mentale.

Nell’uomo, i reni controllano la quantità di acqua, sali e altri soluti che lasciano il corpo filtrando il sangue attraverso milioni di tubuli. Quando una persona beve troppa acqua in un breve lasso di tempo, i reni non riescono a lavorare abbastanza in fretta e il sangue si satura d’acqua. Dal sangue, l’acqua passa nei fluidi extracellulari che hanno una concentrazione di sali maggiore e poi entra anche nelle cellule, gonfiandole come palloni.

Molte cellule hanno abbastanza spazio intorno per “stirarsi” perché si trovano in tessuti flessibili come grasso e muscoli, ma questo non è il caso dei neuroni.

Le cellule del cervello si trovano impacchettate all’interno della scatola cranica e devono condividere questo spazio con sangue e liquido cerebrospinale. All’interno del cervello non c’è quasi spazio per espandersi e gonfiarsi, così l’edema cerebrale, o rigonfiamento cerebrale, può essere disastroso. Un’iponatriemia rapida e severa causa l’ingresso di acqua nelle cellule cerebrali, le gonfia e questo ha come conseguenza convulsioni, coma, arresto respiratorio e morte.

Continuiamo la lettura e scopriamo che nella maggior parte dei casi di avvelenamento da acqua, però, non deriva semplicemente dal bere troppa acqua. Di solito l’avvelenamento è dovuto a una combinazione tra assunzione eccessiva di liquidi e aumento della secrezione dell’ormone vasopressina (o ormone antidiuretico). Questo ormone, prodotto dall’ipotalamo e secreto nel flusso sanguigno dalla ghiandola pituitaria posteriore, dice ai reni di conservare l’acqua. In periodi di stress fisico, come ad esempio durante una maratona, aumenta la sua secrezione e questo può far trattenere l’acqua al corpo, anche se si sta bevendo quantità d’acqua eccessive.

In classe ho parecchi studenti sportivi. Vedo che vorrebbero parlare ma per fortuna nell’articolo arrivano le risposte alle domande non ancora formulate…

Leggiamo, infatti, che mentre si fa esercizio, si dovrebbe bilanciare quello che si sta bevendo con la quantità d’acqua persa attraverso la sudorazione. Questo riguarda non solo l’acqua ma anche gli sport drink, che possono causare iponatriemia se consumati in eccesso.

Naturalmente non è per niente facile misurare la quantità di sudore emesso, per cui  se si è in buona salute e si è dotati di un “barometro” della sete, che non è stato alterato dalle droghe o dalla vecchiaia, il consiglio da seguire è quello di bere per la sete che si ha. A detta dei medici intervistati la sete è l’indicatore migliore.

La discussione è animata e le rassicurazioni sono d’obbligo. I ragazzi sono decisamente coinvolti e quindi chiedo di rispondere in gruppo ad alcune domande.

Quali sostanze possono passare liberamente attraverso la membrana cellulare?

Secondo voi, perché è importante che le cellule controllino le sostanze che entrano ed escono dalla cellula?

Secondo voi, cosa potrebbero fare i medici per curare i pazienti affetti da iponatriemia dovuta ad una introduzione eccessiva d’acqua in un tempo breve?

Come dicevo, questa attività costituisce la fase di ENGAGE di un nuovo ciclo di apprendimento sul passaggio delle sostanze attraverso le membrane cellulari. La lettura dell’articolo, quindi, è servita per introdurre l’argomento delle lezioni successive, per catturare l’attenzione degli studenti, portarli a fare domande, a chiedersi cosa succederà o semplicemente a volerne sapere di più.

Una volta che siamo riusciti a coinvolgerli, è probabile che questo aumenterà il loro coinvolgimento per tutto il processo di apprendimento.

L’attività serve anche a scoprire che cosa sanno già e far emergere eventuali misconcezioni. Durante questa fase, agli studenti non vengono date definizioni formali su ciò che stanno esplorando, né viene detto loro a quali conclusioni arriveranno.

Non è detto ad esempio, che riescano a ipotizzare che un trattamento di emergenza potrebbe essere la somministrazione di soluzione salina per endovena per aumentare la concentrazione di sodio nei fluidi del paziente, riportandoli in un range isotonico. Quando, però, nella fase di EXPLAIN si riprenderanno in considerazione queste domande, saranno invece sicuramente in grado di riformulare le risposte date inizialmente.

L’ora è finita, potrei anche dire volata.

La prossima lezione inizieremo la fase di EXPLORE con una investigazione sulla diffusione attraverso una membrana semipermeabile. Vi racconterò com’è andata.


IBSE e diffusione

$
0
0

Nuova sfida per i miei ragazzi, grande soddisfazione per me.

Proseguiamo l’unità sul movimento delle sostanze (fase di EXPLORE) attraverso le membrane cellulari con un’attività sulla diffusione attraverso una membrana semipermeabile.

Devo essere sincera, ho faticato molto per riuscire a trovare un’idea intrigante sulla diffusione. Con l’osmosi è facile, ma la diffusione? Certo, si possono fare piccole esperienze sulla diffusione di un profumo nella stanza, sulla diffusione del colore in un bicchiere d’acqua, ma questo non rende neanche lontanamente cosa significhi diffusione attraverso una membrana semipermeabile.

Inoltre, avevo bisogno di una attività da poter trasformare in IBSE, un’investigazione scientifica che i ragazzi potessero svolgere PRIMA della fase di spiegazione, solo con la forza delle loro idee e delle conoscenze accumulate fin qui.

Ebbene…cercando cercando l’ho trovata e mi ha dato soddisfazione per cui voglio condividerla con voi.

Siamo andati in laboratorio e in ciascuna postazione ho fatto trovare questi materiali:

  • due becher da 250 ml
  • acqua del rubinetto
  • amido di mais
  • tintura di iodio
  • 2 bustine per alimenti con cerniera
  • contagocce
  • cucchiaio
  • 2 vetrini da orologio
  • cilindro graduato

Per prima cosa ho fatto alcune domande introduttive per richiamare alcuni concetti (prerequisiti) importanti per l’attività, ossia il concetto di soluzione, di soluto e di indicatore.

Questi ragazzi avevano già utilizzato sostanze indicatrici in una investigazione precedente sulle biomolecole, per cui volevo verificare cosa ricordassero.

Fare previsioni prima dell’attività

Lo iodio viene usato come indicatore della presenza di amido. Come si può fare per testare questa sua proprietà? Avete 5 minuti per progettare un modo con i materiali che avete a disposizione.

I ragazzi ricordano da una investigazione precedente che lo iodio a contatto con l’amido cambia colore diventando da rosso/ambrato a viola/nero. Non solo, mentre osservo i gruppi al lavoro, passando tra i banconi del laboratorio, le mie orecchie rimangono incantate.

Odo parole come “controllo positivo” e “controllo negativo” e il mio cuore esulta. Si ricordano!!! Un paio di mesi fa abbiamo fatto un’altra investigazione (sulle biomolecole) in cui, per la prima volta, hanno dovuto riflettere sul significato di questi termini. Da allora non ne abbiamo più parlato e ora li sento usare i termini corretti nel contesto giusto senza alcun tipo di suggerimento, riferimento o scheda. Quasi quasi mi commuovo…

In un attimo ecco la proposta condivisa da tutti: mettono qualche goccia d’acqua nei due vetrini da orologio a disposizione, aggiungono un pizzico di amido in uno dei vetrini e poi un paio di gocce di tintura di iodio in entrambi. Ottimo: controllo positivo e negativo fatto!

Scattano qualche foto e si continua.

IMG_6628

Spiego brevemente che dovranno preparare due becher con una soluzione di acqua e iodio. Nelle due bustine di plastica dovranno versare una uguale quantità di acqua. In una delle due bustine dovranno poi aggiungere un cucchiaio di amido. Quindi, immergeranno entrambe le bustine nelle soluzioni con lo iodio e osserveranno eventuali cambiamenti alla ricerca di evidenze per rispondere alla seguente domanda investigabile: come si può determinare se dei soluti diffondono attraverso una membrana?

Prima di cominciare però dovranno sforzarsi di riflettere su ciò che potrebbe essere un’evidenza del passaggio delle sostanze attraverso la membrana (bustina) di plastica per cui chiedo:

Come si può fare a determinare se l’amido diffonde attraverso la membrana di plastica?

Adesso al lavoro!

Dopo aver discusso le domande e identificato possibili evidenze (ad esempio: se l’amido esce dalla busta la soluzione con lo iodio cambierà colore e diventerà scura, oppure se lo iodio entrerà nella busta l’amido diventerà scuro) riempiono a metà due becher con acqua del rubinetto. Siglano un becher con la lettera A e l’altro becher con la lettera B e aggiungono in ciascun becher 15 gocce di tintura di iodio.

SICUREZZA – Attenzione! Lo iodio è pericoloso se ingoiato o inalato direttamente. Può macchiare i vestiti e la pelle.

IMG_6629

Osservate i due becher. Di che colore diventa l’acqua quando viene aggiunto lo iodio? (giallo ambrato)

Riempiono poi una bustina di plastica con 50 ml di acqua. Nella seconda bustina versano i 50 ml di acqua e un cucchiaio di amido. Chiudono bene le bustine e verificano che non fuoriesca liquido dalle chiusure capovolgendone il contenuto.

Quindi, immergono la bustina contenente solo acqua nel becher A (controllo) e quella con acqua e amido nel becher B e le lasciano immerse per 30 minuti.

IMG_6630

Cosa pensate che accadrà? Scrivete sulla scheda la vostra previsione.

Analisi e conclusioni

Inferenza Dopo che avete immerso le buste di plastica nei becher, cosa è successo allo iodio? Cosa è successo all’amido?

Dopo 30 minuti si compie una “magia” e si verifica un cambiamento di colore nel becher B: l’acqua è un po’ meno gialla mentre sollevando la bustina si può vedere che l’amido all’interno della bustina è diventato viola. Nel becher A non c’è stato nessun cambiamento significativo di colore.

IMG_6621

Inferenza L’acqua è entrata nella busta di plastica o è uscita dalla busta di plastica? Come fate a saperlo? Perché?

L’acqua non si è mossa. Non è entrata nella busta e non è uscita dalla busta. L’evidenza è il fatto che la busta non si è gonfiata e il livello dell’acqua nel becher non è cambiato. La busta è impermeabile all’acqua, quindi se la busta è integra e sigillata, l’acqua non vi può né entrare né uscire.

Applicare i concetti Usate quello che sapete sulla struttura dell’amido per spiegare i risultati ottenuti.

Quanto osservato è un’evidenza del fatto che lo iodio ha attraversato la membrana di plastica e ha reagito con l’amido cambiando colore. Questo è successo perché la bustina è selettivamente permeabile e le molecole di iodio sono sufficientemente piccole per attraversarla, mentre le molecole di acqua e amido no per cui vengono bloccate dalla membrana di plastica. Non c’è amido nel becher perché lo iodio ha cambiato colore solo nella busta e non nel becher.

IMG_6625

Usare analogie In che modo, secondo voi, la bustina di plastica può essere considerata una membrana con un comportamento simile a quello della membrana cellulare?

Il movimento dello iodio attraverso la membrana di plastica è simile a quello delle molecole attraverso le membrane biologiche. La bustina di plastica è, infatti, semipermeabile: si lascia attraversare dallo iodio ma non dall’acqua o dall’amido.

Dalle osservazioni fatte si è potuto constatare, inoltre, che lo iodio si è mosso da dove la concentrazione era maggiore a dove la concentrazione era minore.

Breve sintesi di quanto osservato, breve discussione dei risultati.

Non è ancora arrivato il momento della spiegazione. Prossima tappa: esplorazione dell’osmosi nelle cellule vegetali.


IBSE e mitosi – Engage

$
0
0

Ho appesa alla parete una vecchia foto, con un angolo strappato, tenuta insieme dal nastro adesivo. Raffigura una donna che non ho mai conosciuto. Guarda dritto nell’obbiettivo e sorride, le mani sui fianchi fasciati dal vestito della festa, stirato a puntino. Le labbra sono dipinte di rosso vivo. È la fine degli anni Quaranta e la donna non ha nemmeno trent’anni. La pelle è liscia e ambrata, gli occhi allegri e ancora pieni di gioventù. Non sa che dentro di lei sta crescendo il cancro, un tumore che da lì a poco renderà orfani cinque bambini e cambierà la storia della medicina. Una scritta sotto la foto la identifica come << Henrietta Lacks, o Helen Lane, o Helen Larson>>. Nessuno sa chi abbia scattato la foto, eppure circola in centinaia di copie, stampata su riviste scientifiche e testi universitari, riprodotta in rete, appesa alle pareti dei laboratori. In genere la si identifica come Helen Lane; spesso però la donna non ha un nome ma solo una sigla: HeLa, il codice attribuito alla prime cellule umane immortali. Sono le sue cellule, prelevate dalla sua cervice uterina poco prima che morisse. Il suo vero nome è Henrietta Lacks.

Rebecca Skloot, La vita immortale di Henrietta Lacks, Adelphi

Henrietta_Lacks_(1920-1951)

La storia di Henrietta Lacks rappresenta un momento straordinario, ma al contempo vergognoso, della storia della ricerca medica.

Il 29 gennaio 1951, una giovane donna di 31 anni, madre di cinque figli, scende dall’auto guidata dal marito, David Lacks, davanti al Johns Hopkins Hospital di Baltimora, nel Maryland, USA. Piove e la donna entra di corsa nell’edificio. Si dirige verso la sala d’attesa della clinica ginecologica e chiede di essere visitata. Non stava bene da più di un anno e, finalmente, si era decisa a farsi visitare. L’ospedale era lontano una trentina di chilometri dalla casa dei Lacks, ma erano gli anni della segregazione razziale e quello era l’unico centro nel raggio di molti chilometri che accettasse pazienti neri. Nonostante ciò, anche al John Hopkins, bianchi e neri erano tenuti separati. Per i colored c’erano reparti apposta e tutto era doppio, fontanelle dell’acqua comprese.

Fu visitata dal medico di turno, il dottor Howard Jones, che individuò una massa cancerosa violacea nella cervice uterina. Il medico prelevò un pezzetino di tessuto e inviò il campione al laboratorio di anatomia patologica per stabilire se le cellule fossero o meno cancerose. I risultati del laboratorio non lasciarono dubbi: carcinoma a cellule squamose della cervice uterina, stadio I.

La diagnosi del carcinoma era possibile solo da pochi anni, ossia da quando Georgios Papanicolaou pubblicò, nel 1941, i risultati di una ricerca in cui descriveva il metodo oggi noto come Pap test, ossia un prelievo di cellule della cervice uterina che vengono poi esaminate al microscopio alla ricerca di cellule cancerose. Con questo esame era, ed è, possibile scoprire le cellule precancerose e intervenire in tempo, all’epoca con una isterectomia. In quel periodo, più di quindicimila donne americane morivano ogni anno a causa di questa malattia sia perché molte donne non si sottoponevano al test, sia perché non tutti i medici erano in grado di interpretarne correttamente i risultati.

Henrietta fu curata con una terapia a base di radio. Nella sala operatoria riservata ai colored, Henrietta venne anestetizzata. Senza che le fosse chiesto il permesso, le vennero asportati due frammenti di tessuto grandi come monetine, uno dalla zona tumorale e uno da una parte sana, poi fu sottoposta alla terapia che consisteva nell’applicazione di provette piene di radio che venivano cucite alle pareti dell’utero.

Mentre la paziente ignara veniva riportata in corsia, i due campioni di tessuto asportati vennero inviati al laboratorio del Dott. George Gey che, insieme alla moglie Margaret, lavorava da trent’anni con le cellule cancerose cercando di farle riprodurre in vitro, sperando di far progredire le ricerche sulle origini e sulla cura del cancro, anche se, fino ad allora, senza successo.

A quell’epoca, non si conoscevano con precisione le sostanze nutritive indispensabili alla crescita delle cellule, né con quali modalità andassero somministrate.

I terreni di coltura sembravano pozioni da streghe:

contenevano plasma di pollo, feti di vitello omogeneizzati, sangue del cordone ombelicale umano e sali particolari (pag.52). 

Una volta che i campioni di tessuto arrivarono in laboratorio, un’assistente del Dott. Gey, Mary Kubicek,

con le pinze in una mano e il bisturi nell’altra, li suddivise accuratamente in tanti quadratini di un millimetro di lato. Aspirandoli con una pipetta, li depositò uno alla volta in varie provette, dove già erano stati inseriti dei pezzetti di sangue di pollo coagulato. Quindi le riempì con il mezzo di coltura e le sigillò con tappi di gomma. Come aveva fatto quasi sempre in precedenza, etichettò i campioni con le prime due lettere del nome e del cognome del donatore. Henrietta Lacks divenne dunque <<HeLa>>, sigla che fu scritta a grandi lettere su ogni provetta (pag.54).

Dopo l’intervento per l’inserimento in utero del radio, Henrietta rimase qualche giorno in ospedale. Prima di dimetterla, le vennero rimosse le barrette di radio e le fu detto di ritornare dopo due settimane e mezzo per la seconda dose.

Nel frattempo, in laboratorio, le cellule di Henrietta stavano crescendo a velocità incredibile.

Nel giro di un giorno erano raddoppiate di numero…dopo altre ventiquatt’ore erano raddoppiate ancora. Ben presto ogni provetta ne generava quattro nuove, poi sei. Le cellule di Henrietta riempivano tutto lo spazio che veniva loro concesso…e continuarono a crescere come non mai, a centinaia, raddoppiando ogni ventiquattr’ore fino a diventare milioni… Si moltiplicavano venti volte più velocemente delle cellula sane di Henrietta, che comunque morirono dopo pochi giorni in coltura. Se adeguatamente nutrite e tenute al caldo, erano praticamente inarrestabili (pag. 57-58).

Il dott. Gey cominciò a raccontare ad alcuni colleghi di essere riuscito a coltivare in laboratorio cellule umane apparentemente “immortali”. Naturalmente cominciarono ad arrivare richieste di campioni di queste cellule e Gey cominciò a distribuirle ad altri laboratori.

George_Gey

Nel frattempo Henrietta non sapeva che le sue cellule si stessero riproducendo in laboratorio. Dopo essere stata dimessa dall’ospedale era tornata alla sua vita di sempre. Il trattamento con il radio aveva fatto scomparire completamente il tumore. Le fu detto di continuare, a scopo precauzionale, la radioterapia ma le cose, in realtà, non migliorarono affatto.

Dopo aver scoperto che la radioterapia l’aveva resa sterile (nessuno l’aveva informata prima di cominciare le cure), i sintomi peggiorarono.

Appena tre settimane dopo il primo trattamento di radioterapia di Henrietta, il Dott. Gey partecipò ad una trasmissione televisiva dedicata al suo lavoro, dove mostrò addirittura un campione di cellule di Henrietta, naturalmente ancora del tutto ignara.

Durante la trasmissione, Gey non fece mai il nome di Henrietta né raccontò la storia di quelle cellule.

Gey diffuse le cellule di Henrietta in tutto il mondo.

Le cellule HeLa arrivarono in Texas e in India, a New Yorl e ad Amsterdam, e in molti altri posti. Chi riceveva un campione lo faceva girare ai colleghi, creando così un effetto a catena che portò le cellule di Henrietta fino alle montagne del Cile, nelle bisacce dei muli da soma (pag.77).

Nel frattempo Henrietta peggiorava. Raccontò più volte ai medici che si sentiva il cancro muovere dentro ma questi continuarono a scrivere nella cartella clinica di non aver riscontrato alcun segno di recidiva nonostante la paziente lamentasse un continuo malessere.

I dolori continuarono ad aumentare. Non riusciva più a urinare, ma i medici le posizionarono un catetere e la rimandarono a casa. Quando si fece nuovamente visitare, i medici le fecero le lastre e questa volta la rimandarono a casa dopo averla definita “inoperabile”. Henrietta continuò a peggiorare e fu ricoverata molte altre volte, terribilmente sofferente.

Non ci sono testimonianze scritte del fatto che George Gey abbia visitato Henrietta in ospedale o le abbia fatto sapere in qualche modo cosa fosse successo alle sue cellule.

Una microbiologa che lavorava con Gey, riferì, però, che lui stesso le raccontò di essersi avvicinato al letto di Henrietta e di averle sussurrato:

“Le tue cellule ti renderanno immortale”. Le spiegò che quel campione avrebbe salvato innumerevoli vite. Lei sorrise. E gli disse che era felice di sapere che tutto quel dolore sarebbe servito a qualcosa (pag.87).

Henrietta morì il 4 ottobre 1951.

Da allora, molti scienziati iniziarono nuove ricerche studiando in che modo le cellule umane si dividono e le differenze tra le cellule cancerose e quelle normali. Venivano continuamente sviluppati nuovi tipi di coltura cellulare e le nuove linee cellulari venivano inviate ai laboratori di tutto il mondo.

All’inizio degli anni Settanta, però, ci si accorse che quelle che sembravano colture di tipi cellulari diversi, erano tutte in realtà cellule HeLa. A causa di una contaminazione dei campioni, i ricercatori di tutto il mondo credevano di essere riusciti a far crescere e a studiare cellule tumorali di tipo diverso (ad esempio della mammella, renali o della prostata) mentre in realtà avevano sempre utilizzato cellule della cervice uterina di Henrietta Lacks. Per anni si era ritenuto che tutti i tipi di cellule tumorali avessero bisogno degli stessi nutrienti per crescere e che avessero tutte cromosomi anomali.

Con sgomento scoprirono, invece, che le cose non stavano così e che le caratteristiche delle cellule HeLa non erano presenti in tutti i tipi di cellule tumorali.

Le cellule HeLa sopravvivono ancora oggi e continuano a dividersi giorno dopo giorno.

Negli anni Cinquanta sono state utilizzate per sviluppare il vaccino contro la poliomielite e vengono tutt’ora utilizzate nelle biotecnologie per la produzione di alcune proteine.

La cosa più incredibile è però il fatto che la famiglia non seppe nulle delle cellule di Henrietta fino a quando, diversi decenni dopo la sua morte, non sono stati contattati da scienziati che cercavano campioni di sangue che avrebbero potuto aiutarli ad avere maggiori informazioni sulle cellule HeLa. La famiglia, povera e senza istruzione, pensò, invece, che volessero fare dei test per vedere se anche loro sarebbero morti di cancro.

Parla Deborah Lacks

Quando la gente me lo chiede… io dico che sì, mia madre si chiamava Henrietta Lacks, è morta nel 1951, al John Hopkins hanno preso le sue cellule e ‘ste cellule sono ancora vive, si moltiplicano, crescono e se non si tengono nel congelatore se ne vanno dappertutto. Gli scienziati le chiamano HeLa, e lei è in tutto il mondo, negli ospedali, nei computer, in internet, dappertutto. Tutte le volte che vado da un dottore per i controlli dico che HeLa era mia madre. Loro sono tutti entusiasti, e mi dicono che le sue cellule hanno aiutato a fare le mie medicine per la pressione e le mie pillole per la depressione, e che tutte queste scoperte importanti della scienza sono successe grazie a lei. Ma non mi spiegano mai niente, solo cose del tipo sua madre è andata sulla Luna, è stata nelle bombe nucleari, ha fabbricato il vaccino della polio. Davvero non so come ha fatto tutto questo, ma in un certo senso sono contenta, perché significa che sta aiutando un mucchio di gente. Penso che le farebbe piacere. Però ho sempre pensato: che strano, se le cellule di nostra madre hanno fatto tanto per la medicina, com’è che la sua famiglia non può permettersi le visite mediche? Non ha proprio senso. C’è gente che ha fatto un sacco di soldi grazie alla mamma e noi non sapevamo neppure che le prendevano le cellule, e oggi non vediamo un centesimo. Prima mi arrabbiavo così tanto se ci pensavo, mi faceva star male, e dovevo prendere delle pillole. ma adesso non ho più la forza di lottare. Voglio solo sapere chi era mia madre (pag.23).

Per saperne di più:

Sito web di Rebecca Skloot


IBSE e mitosi – Explore

$
0
0

La storia di Henrietta Lacks ha avuto sicuramente un impatto emozionale molto grande sui ragazzi. Dopo la lettura del racconto su Henrietta, tratto dal libro di Rebecca Skloot, La vita immortale di Henrietta Lacks, Adelphi,  ho posto alcune domande ai ragazzi che abbiamo discusso insieme.

Perché le cellule si dividono?

Le cellule procariotiche ed eucariotiche si dividono allo stesso modo?

Perché le cellule cancerose sono in grado di dividersi incessantemente?

Secondo voi è giusto coltivare cellule in laboratorio? Quali vantaggi e svantaggi ci sono?

Ora siamo pronti per cominciare ad esplorare la divisione cellulare (fase di Explore).

Le attività che voglio fare sono due: una in classe, “su carta”, e l’altra in laboratorio. Naturalmente, entrambe le attività saranno effettuate PRIMA della fase di spiegazione e i ragazzi lavoreranno quindi  utilizzando solo il ragionamento e le loro conoscenze pregresse.

Quale fare per prima?

Certo, la più coinvolgente sarà sicuramente quella che faremo in laboratorio, ossia l’osservazione della mitosi negli apici radicali di cipolla, ma i ragazzi hanno ancora poca manualità e potrebbe anche capitare che l’allestimento del vetrino porti via molto più tempo del necessario, riducendo di fatto il tempo per l’osservazione e la riflessione. Preferisco, quindi, arrivare alla fase “manuale” in laboratorio dopo aver già riflettuto su quanto poi osserveranno al microscopio.

Decido, quindi, di cominciare a preparare il terreno modificando un pochino un’attività tratta da un lavoro di Danieley (1990) “Exploring mitosis through the learning cycle” che prevede di chiedere ai ragazzi di osservare 15 disegni che rappresentano delle cellule in divisione mitotica e cercare di mettere in sequenza temporale le immagini senza sapere di che si tratta.

Ho già fatto questa attività l’anno scorso, ma questa volta voglio darle un contesto in modo riuscire a far immergere maggiormente i ragazzi nei processi che portano alla produzione di nuova conoscenza scientifica, in altre parole a simulare il lavoro di uno scienziato.

Quello che voglio è che provino a immedesimarsi nei ricercatori che per primi cominciarono ad osservare le cellule vegetali in divisione.

A partire dalla fine dell’Ottocento, le osservazioni al microscopio delle cellule portarono all’identificazione delle strutture interne del nucleo e, in particolare, dei cromosomi. Lo zoologo tedesco Otto Bütschli è stato uno dei primi ricercatori ad elaborare un modello della genesi dei nuclei durante la duplicazione cellulare.

Fu però l’anatomista tedesco Walther Flemming che  descrisse per primo le strutture fibrillari del fuso, fornendo una rappresentazione quasi del tutto corretta dei processi della divisione cellulare, che pubblicò nel trattato Zellsubstanz, Kern und Zelltheilung (Materia cellulare, nucleo e divisione cellulare, 1881).

Walther_flemming_2

Il suo libro fu pubblicato nel 1881 e questo libro segnò un momento davvero importante per la storia della biologia perché Flemming descrisse la divisione cellulare in grande dettaglio grazie ad un nuovo e più potente microscopio e a nuove tecniche di colorazione. Grazie a queste innovazioni, Flemming fu in grado di identificare le strutture che successivamente, nel 1888, Wilhelm Waldeyer (1836-1921) avrebbe chiamato cromosomi .

Le osservazioni microscopiche mostrarono che durante la divisione cellulare la cellula subisce una serie di cambiamenti dinamici e si dividono in due parti identiche, le cellule figlie. Flemming chiamò questo processo mitosi ( dal greco μίτος Mitos “ordito”) e nel suo libro si possono vedere i i disegni delle fasi della divisione delle cellule della coda in crescita dei girini.

Drawing of mitosis by Walther Flemming

La separazione dei cromosomi e lo spostamento verso i rispettivi poli delle parti che si formano durante la duplicazione cellulare fu una scoperta importante che permise di cominciare a comprendere meglio anche come una singola cellula possa trasformarsi in un organismo complesso costituito da molte cellule che interagiscono tra loro.

Quali sono gli eventi in sequenza della mitosi?

Distribuisco quindi una scheda con disegnate 15 cellule in differenti fasi della mitosi.

MitosisSequencing

I disegni che vedete sono quelli che fece Flemming durante le osservazioni delle cellule in duplicazione della coda di girino di rana. Secondo voi qual è la sequenza degli eventi che portano da una cellula originaria ad ottenerne due identiche?

Avete 5 minuti per mettere in sequenza le cellule scrivendo sotto ciascuna un numero da 1 a 15 con la matita (in modo da poter eventualmente modificare successivamente la numerazione). Una volta fatta questa riflessione a livello individuale, vi riunirete in gruppi di quattro e avrete quindici minuti per discutere le ragioni delle vostre scelte ed arrivare ad una sequenza condivisa.

È bene rassicurare fin da subito i ragazzi sul fatto che non importa se conoscono o meno ciò che rappresenta ciascun disegno. Il loro compito consiste semplicemente nell’usare la logica e il ragionamento per mettere in sequenza le cellule semplicemente sulla base di quanto osservano nei disegni, esattamente come fecero Flemming e gli scienziati del suo tempo.

La fase individuale di riflessione è molto importante. All’inizio i ragazzi si troveranno naturalmente un po’ in difficoltà, ma per cominciare a costruire la propria comprensione è necessario costringerli a sforzarsi di riflettere da soli almeno per un po’. Se lavorassero in gruppo fin dall’inizio, i ragazzi più fragili o più timidi si lascerebbero condurre passivamente da quelli più bravi o più decisi senza riuscire a innescare il proprio percorso di apprendimento.

Durante la discussione finale, a livello di classe, ho cominciato chiedendo a ciascun gruppo di indicare quale sia il primo disegno della sequenza e di spiegare le ragioni della scelta e abbiamo proseguito così fino ad arrivare ad una sequenza condivisa da tutta la classe.

La prima volta che ho fatto questa attività (l’anno scorso) ero molto preoccupata perché non sapevo come avrebbero reagito i ragazzi e temevo che si sarebbero trovati in grande difficoltà, visto che non avevo ancora spiegato nulla sull’argomento. Come al solito però, i ragazzi mi hanno confermato quanto sono in gamba, non solo finendo velocemente sia a livello individuale che di gruppo, ma arrivando quasi tutti alla sequenza corretta basandosi solo sull’osservazione dei disegni e sul ragionamento.

La prossima lezione, prima di cominciare a spiegare cosa succede alla cellula nelle varie fasi della divisione cellulare e di introdurre il lessico specifico delle strutture che si formano e delle varie fasi della mitosi, i ragazzi prepareranno dei vetrini con gli apici radicali delle cipolle che abbiamo messo a germogliare nell’acqua dieci giorni fa. Non vedo l’ora di vedere le loro facce quando vedranno per la prima volta al microscopio i cromosomi e nei vetrini preparati con le loro mani! Ogni volta è una vera gioia! :-)

Per saperne di più:

– Chip Asbury e Linda Wordeman, A Short History of Mitosis: the Early Days

 


IBSE- la fase di EXPLAIN

$
0
0

In questi ultimi mesi ho parlato spesso di attività da fare in classe con i ragazzi, ma non abbiamo ancora fatto due chiacchiere su quello che sappiamo fare meglio: la fase di spiegazione.

Lo ripeto, questo è quello che sappiamo fare meglio. Anni e anni di allenamento saranno pure serviti a qualcosa no? Forse però possiamo ancora avere un margine di miglioramento, almeno questo vale per me.

Mi piace spiegare, perché mi piace raccontare storie. Mi piace l’idea che i ragazzi attraverso le mie parole riescano a immergersi nella storia di una scoperta, nei processi della scienza, quella vera, che difficilmente emerge dalle pagine di un, seppur ottimo, libro di testo. A volte però, la spiegazione può diventare quasi un automatismo, i processi sono questi e così come sono te li racconto e l’unica cosa che posso fare per aiutarti a capire è cercare di essere chiara, insistendo sulle parti che sono più ostiche.

Cosa può aggiungere l’IBSE alla spiegazione che non facciamo già? È molto semplice, quella che cambia è la prospettiva.

Nella fase di EXPLAIN gli studenti vengono aiutati a focalizzare l’attenzione su particolari aspetti delle esperienze fatte attraverso la spiegazione dei concetti, l’introduzione del lessico scientifico appropriato e la discussione delle eventuali misconcezioni emerse nelle fasi precedenti.

Non si tratta più di aggiungere semplicemente un tassello nello svolgimento del programma, ma si tratta anche di aiutare i ragazzi a mettere i puntini sulle i, a correggere il tiro quando sbagliano, a far sì che ciò che hanno appena esplorato in prima persona diventi qualcosa di significativo e duraturo.

La spiegazione comincia, quindi, facendo un passo indietro, tirando fuori quanto emerso durante la fasi precedenti per mettere a confronto le conoscenze pregresse e le nuove conoscenze acquisite con l’esperienza, con la riflessione, con le conoscenze scientifiche note.

Ecco il cambio di prospettiva: la spiegazione mi serve perché così riesco a capire quello di cui ho fatto esperienza. A questo punto del lavoro, capire è diventato un bisogno, sono emerse tante domande, ne abbiamo discusso ma ora ho bisogno di sapere come stanno veramente le cose.

Solitamente, io parto dall’esperienza fatta la lezione precedente. Discutiamo quanto è emerso nella fase di esplorazione, i ragazzi si confrontano tra loro valutando le proprie spiegazioni anche alla luce di spiegazioni alternative: prima con un confronto tra pari e poi confrontando le proprie idee con le conoscenze scientifiche note.

È questo il senso della spiegazione, non si tratta di sentire come stanno le cose, si tratta, piuttosto, di mettere alla prova quanto credo di aver capito, di capire meglio quello che non sono riuscito ancora a capire, di volare ancora un po’ più in alto approfondendo un po’ le questioni.

Anche se ormai sto lavorando “a tempo pieno” sull’IBSE da oltre quattro anni, studiando, progettando, provando, correggendo il tiro… non sto ancora lavorando così in tutte le classi, almeno non in modo sistematico. Per scelta, sto facendo un percorso progressivo e verticale. Sono partita dalle classi prime, ho aggiunto quest’anno le seconde e nel tempo spero di riuscire a produrmi materiali anche per le classi successive.

Ci vuole tempo, pazienza e forse una buona dose di coraggio (o masochismo, non ho ancora capito bene) perché ribaltare l’insegnamento non è cosa da poco. Quello che posso dirvi, però, è che non mi sono mai pentita perché FUNZIONA. La prospettiva cambia davvero. Cambia la nostra, ma, cosa più importante, cambia quella dei ragazzi.

Mi ritengo un’insegnante davvero fortunata. Lavoro in una scuola relativamente piccola, insegno in un liceo scientifico e quindi i ragazzi sono di per sé “studiosi”, ma negli ultimi dieci anni ho assistito impotente a un fenomeno sempre più evidente. Arrivano in prima dotati di entusiasmo e voglia di fare, arrivano in quinta studiosi e per lo più disciplinati ma con gli occhi spenti.

Studiano perché sono stati “addestrati” a farlo, ma non sempre ciò che fanno ha un senso per loro. Lo fanno e basta. In questo periodo dell’anno, quindi, il quotidiano scolastico diventa per loro un fardello a volte insopportabile e li vedo combattere con il sonno e la stanchezza, e forse la noia, quasi tenendo fisicamente gli occhi aperti con le mani per non soccombere al sonno che vorrebbe prenderseli.

Questo non succede, però, nella mia prima e nelle due seconde dove lavoro diversamente. Anche la spiegazione è in qualche modo un processo attivo e i ragazzi restano coinvolti tutto il tempo.

In un ciclo di apprendimento IBSE la fase di spiegazione è quella che permette agli studenti di apprendere le informazioni di cui hanno bisogno per dare senso alle esplorazioni scientifiche fatte.

Nelle fasi precedenti, gli studenti hanno appreso in modo induttivo (hanno fatto domande, investigato, analizzato ed esplorato i concetti o le “idee” identificate dall’insegnante) e così hanno cominciato a costruire la propria comprensione. Ora che gli studenti hanno esperienze comuni collegate agli argomenti esplorati, possono apprendere i “concetti” e trasformare queste informazioni in conoscenza concreta.

La spiegazione è anche presentazione di fatti e informazioni e questa può assumere molti volti.

Leggere

La information literacy è la capacità di identificare, individuare, valutare, organizzare, utilizzare e comunicare le informazioni che provengono da una varietà di forme diverse.

Per gli studenti di scienze solitamente questo significa saper leggere testi informativi (non-fiction) allo scopo di estrarre fatti e informazioni da utilizzare per costruire la propria conoscenza. Per esempio, consideriamo la lettura di un articolo di un quotidiano che riporta questa informazione:
 il nubifragio che si è abbattuto a Genova nell’ottobre del 2014 ha causato danni stimati per circa 300 miliardi di euro.

Questa è sicuramente una informazione interessante ma cosa se ne fa uno studente?

Senza uno scopo per fissare questa informazione, rimane solo una informazione. Cosa succede, invece, se questa informazione emerge durante una discussione sui disastri naturali in Italia? Uno studente potrebbe, ad esempio, contribuire riguardo a questo “fatto” riportando che durante questo nubifragio è morta una persona, mentre nel settembre del 2000 l’alluvione a Soverato (Catanzaro) il bilancio è stato di 12 morti .

Per fissare questi “fatti”, gli studenti potrebbero allora discutere i criteri con cui vengono valutati i disastri naturali e si potrebbe ad esempio chiedere: quale evento è stato più distruttivo il nubifragio di Genova del 2014 o quello di Soverato nel 2000?

Oggi, anche grazie a internet, abbiamo una molteplicità di opzioni quando selezionano i testi informativi per i nostri studenti: libri di testo, articoli di periodici o giornali affidabili, libri divulgativi… L’ideale, lo sappiamo, sarebbe riuscire ad utilizzare una combinazione di queste risorse per aiutare i ragazzi a identificare informazioni rilevanti e cominciare a costruire la propria conoscenza utilizzando fonti diverse.

Da sempre, i libri di testo rappresentano le fonti di informazione tradizionali. Gli studenti vi trovano le informazioni già organizzate per unità, argomenti e sotto-argomenti, definiti dai titoli dei capitoli, dei paragrafi e dei sotto-paragrafi. I libri di testo coprono una gran quantità di concetti e argomenti e possono spiegarli in dettagli particolareggiati. Figure, grafici, tabelle e altre fonti visuali possono supportare il testo, ma il grosso delle informazioni è contenuto all’interno del testo stesso. Più alto è il livello scolare degli studenti, più i libri tendono, naturalmente, ad essere maggiormente dettagliati.

Nonostante i libri di testo siano il punto fondamentale dell’istruzione contenutistica, non dovrebbero essere l’unica opzione di lettura disponibile. Come ben sappiamo, gli articoli, ad esempio, possono essere una buona fonte di informazioni che fornisce maggiori esempi di vita reale. Possono cominciare con una storia o un collegamento alla vita reale e poi inseriscono fatti e informazioni all’interno della struttura della narrazione.

Per esempio, gli studenti potrebbero leggere un articolo che parla di una persona, un geologo che studia la posizione di formazioni rocciose per determinare se si è verificato un cambiamento a causa di un terremoto. L’articolo sul geologo e il suo lavoro fornisce agli studenti informazioni sui cambiamenti che avvengono nel nostro pianeta e su come comprendere questi processi aiuti gli scienziati a saperne di più sulla storia della Terra.

Anche se gli articoli non possono certo sostituire il ruolo del libro di testo, i ragazzi potrebbero trovare questo tipo di lettura più interessante e accessibile, rispetto al semplice aprire il libro di testo a pag. 324 e leggere i processi che modificano la superficie della Terra. Quelle stesse pagine del libro di testo (lette a casa) e la spiegazione dell’insegnante (a scuola) diventerebbero momenti di apprendimento decisamente più significativi.

Gli articoli possono essere ottime risorse anche per colmare una lacuna nella conoscenza contenutistica, quando il libro di testo, ad esempio, non ha quell’informazione o non entra a sufficienza nel dettaglio o non copre un aspetto particolare di un concetto che è necessario allo studente per imparare.

Gli articoli possono essere reperiti in pubblicazioni attendibili (Le scienze, National Geographic, BBC Science) e facili da comprendere anche per i ragazzi. Anche i quotidiani possono essere fonte di articoli con informazioni attuali, interessanti e rilevanti collegati alla loro comunità in cui vivono e al mondo che li circonda, ma necessitano di un maggiore controllo dal punto di vista scientifico.

Ascoltare le lezioni

Gli insegnanti durante la fase di EXPLAIN condividono la loro competenza, spiegano concetti importanti e dettagliati, chiariscono informazioni, attraverso lezioni. Oggi le lezioni possono assumere varie forme: lezioni frontali, conversazioni, video-lezioni, presentazioni interattive, per nominarne alcune.

A volte un esperto esterno sembra funzionare meglio e questo può avvenire in presenza, ma anche attraverso podcast, file digitali, video lezioni online o interviste skype.

Ascoltare per imparare

Ascoltare e guardare, però, non è abbastanza. Per interiorizzare l’apprendimento gli 
studenti dovrebbero comunque prendere appunti. Qualunque sia il formato scelto, gli studenti che prendono appunti hanno una registrazione permanente dell’apprendimento delle informazioni.

Dopo che gli studenti hanno letto o ascoltato le informazioni sui concetti scientifici, guidare discussioni può essere molto utile per rinforzare l’apprendimento, chiarire domande e incertezze che possono ancora avere. Si può decidere di fare una discussione di classe ponendo delle domande e chiedendo di rispondere a dei volontari. In questo modo però, questo tipo di discussione coinvolge realmente solo quelli che vi partecipano.

Ci sono altre tecniche che permettono di far parlare più studenti nella stessa quantità di tempo e queste possono essere discussioni di coppia o in piccolo gruppo e le tecniche di apprendimento cooperativo possono essere molto utili in questi casi.

Strategie utili per apprendere il lessico

Per aiutare i più piccoli, o i ragazzi stranieri in difficoltà con la lingua, ad apprendere il lessico specifico senza impararne a memoria le definizioni, una strategia utile potrebbe essere quella di far fare una tabella a tre colonne in cui inserire il termine, la definizione formale, e una spiegazione della definizione formale scritta con le proprie parole come questa:

lessico

Flipped Explain

Molto è già stato detto sulle Flipped Classrooms e la loro rilevanza nell’apprendimento, io stessa ne ho già discusso in passato. Si possono creare video ( o utilizzare video già presenti nel web) per quegli obiettivi che necessitano di una istruzione diretta.

Il video, però, non può essere semplicemente “somministrato”. Deve essere accompagnato da qualcosa da fare: ad esempio un breve questionario per la valutazione della comprensione dei concetti spiegati nel video da postare su Edmodo o su Moodle, o da attaccare sul quaderno. Oppure si può chiedere di prendere appunti sul video così come farebbero in classe ad esempio con la metodologia della Cornell University.

Il problema è però che questo ci caricherebbe ulteriormente di lavoro, perché se non correggiamo quanto fatto dopo un paio di volte non lo fanno più. La mia personale, e quindi discutibile, strategia consiste nel preparare una serie di domande sulla comprensione del video (una per ogni studente che abbiamo in classe) da assegnare insieme al video e poi, in classe, faccio cominciare la lezione successiva ponendo, in modo casuale, una domanda a ciascuno studente e discutendo insieme alla classe le possibili risposte. Questo li obbliga a guardare il video ma soprattutto a ragionarci sopra, perché, lo sappiamo bene, i ragazzi non fanno i compiti per amore della conoscenza e quindi dobbiamo in qualche modo obbligarli a fare quanto necessario.

Naturalmente è fondamentale assicurarsi che tutti gli studenti abbiano accesso ai video. Nel caso dispongano di un dispositivo ma non abbiano accesso a internet, si può masterizzare il video su un cd o copiarlo in una chiavetta usb.

Qui di seguito vi mostro i miei primi tentativi di videolezione. Ho ancora tanta strada da fare per migliorare, ma li ho usati con i ragazzi e “funzionano”, per cui ho intenzione di continuare gli sforzi di “produzione”.

Flipped classrooms e IBSE: un matrimonio perfetto

Flipped classrooms e IBSE sono davvero perfetti insieme, soprattutto quando la spiegazione riguarda argomenti in cui le informazioni devono essere semplicemente presentate e apprese. I video non sostituiscono il ruolo fondamentale dell’insegnante, ma permettono di reperire una risorsa preziosa e rara come l’oro: il tempo in classe.

Portando l’istruzione “diretta” fuori dal tempo classe (ad esempio lo scenario iniziale, le lezioni frontali, le spiegazioni prima di un laboratorio, le spiegazioni di attività, ecc.), infatti, si rende disponibile una quantità di tempo extra per gli eventi importanti che dovrebbero verificarsi in classe e che spesso vengono sacrificati: motivare gli studenti
, far emergere le conoscenze pregresse e scoprire le misconcezioni, esplorare sperimentale i fenomeni
, fornire maggiori chiarimenti sui contenuti, discussione e generalizzazione dei concetti, applicazione dei concetti appresi in situazioni nuove…

Sappiamo bene che nessuna singola strategia riuscirà a soddisfare le necessità di tutti gli studenti. Diversificare le azioni didattiche, però, ci consente di aiutare ad apprendere un numero maggiore di ragazzi. Se il miglioramento riguardasse anche un solo studente in più, ne sarà comunque valsa la pena.

Per saperne di più:

– Apprendimento cooperativo in classe. Migliorare il clima emotivo e il rendimento, (2002)
di David W. Johnson (Autore), Roger T. Johnson (Autore), Edythe J. Holubec (Autore), L. Marinelli (Traduttore) Ericson


Cosa c’è nella scatola?

$
0
0

Ci siamo. Ormai si ricomincia. Non so se piace anche a voi preparare qualche attività nuova per l’inizio del nuovo anno scolastico. A me… tanto! Mi piace l’idea che i ragazzi possano rientrare a scuola col sorriso, magari pensando che il nuovo anno porterà tante nuove cose interessanti da fare e imparare.

Io sono fortunata. La continuità didattica mi permetterà di lavorare con un approccio inquiry-based per il terzo anno consecutivo con le stesse classi e questo è davvero un bel vantaggio quando si cerca di introdurre un nuovo approccio didattico. Vi assicuro che è fantastico accorgersi che le cose fatte in passato non sono state dimenticate, che un certo modo di pensare è diventato una cosa naturale. I ragazzi stanno acquisendo una mentalità scientifica che riversano in tutto ciò che di nuovo si trovano ad affrontare e più di una volta lo scorso anno scolastico sono rimasta piacevolmente sorpresa dai progressi fatti.

Le prime che mi hanno accolto a metà anno scolastico (rientravo dal dottorato) ormai due anni fa, guardandomi come se fossi una strana creatura arrivata fresca fresca da Marte, quest’anno saranno in terza. Non so quali sono le vostre consuetudini ma io solitamente in terza (liceo scientifico) inizio con la chimica, dai modelli atomici.

A me piace moltissimo la trattazione “storica”, dagli antichi Greci all’atomo moderno ma per i ragazzi è tutto molto difficile. Non possiamo certo “aprire” l’atomo in laboratorio per vedere cosa c’è dentro, né possiamo fargli rifare gli esperimenti “famosi” che hanno portato via via alla visione moderna della struttura atomica, almeno non nel mio laboratorio! ;-)

Ciò che possiamo fare, però, è mettere i ragazzi in condizione di comprendere meglio la natura della scienza, il processo scientifico che porta alla formulazione di ipotesi, modelli e teorie, prima di affrontare tutto ciò nei dettagli. Ho deciso quindi di cominciare l’anno scolastico, e quindi il percorso sulla struttura dell’atomo, con una investigazione che funzionerà da fase di engage/explore della mia unità sull’atomo.

Solitamente, la trattazione della struttura dell’atomo comincia nel primo biennio partendo con la scoperta delle particelle subatomiche e arrivando al modello atomico di Rutherford. Il resto viene trattato in terza. Io, però, non amo molto questa scansione e preferisco fare un percorso unitario direttamente in terza. Non so se sia meglio o peggio, ma la mia esperienza mi ha portato a pensare che questo modo possa essere più produttivo per i ragazzi, per cui solitamente faccio così.

In letteratura, e anche in rete, ci sono tantissime attività sulla natura della scienza e molte di queste sono già previste nelle attività iniziali delle mie classi prime. Tra le tante altre possibili, ce n’è una molto semplice, perfetta per ciò che intendo fare: la mystery box.

Se cercate in rete ne troverete moltissime varianti. Quella che ho intenzione di utilizzare è proposta dal Science Museum di Londra. In pratica, i ragazzi devono cercare di scoprire cosa c’è dentro una serie di scatole senza poterle aprire.

In chimica vengono spesso utilizzati modelli e teorie per rappresentare e spiegare il comportamento di particelle che non possiamo vedere. L’attività con le scatole rappresenta una bella analogia del processo scientifico. Gli scienziati, infatti, spesso non sono in grado di “aprire la scatola” per scoprire con certezza se le loro idee sono corrette o meno, quindi formulano teorie basate sulle evidenze raccolte con le loro ricerche e queste teorie sono sempre aperte, soggette a revisione quando emergono nuove evidenze.

Questa a attività permette, inoltre, di sviluppare abilità importanti come fare osservazioni, interpretare e argomentare. I ragazzi proveranno sulla propria pelle cosa vuol dire investigare ciò che non si può vedere. Il metodo che utilizzeranno per scoprire cosa c’è dentro le scatole renderà più facile per loro comprendere successivamente, durante la fase di explain, l’uso di metodi indiretti per determinare la struttura dell’atomo.

Sono molti i modelli costruiti attraverso metodi indiretti. La struttura interna della Terra, ad esempio, è stata descritta attraverso l’osservazione della propagazione delle onde sismiche. Anche in questo caso si tratta di misure indirette perché nessuno ha potuto vedere direttamente il nucleo o il mantello. Questa attività permetterà quindi ai ragazzi di “immergersi” meglio nel lavoro, ad esempio, di Thomson e di Rutherford che verrà spiegato successivamente.

Cosa serve?

Per l’attività servono sei scatole con coperchio, possibilmente con la stessa forma e dimensioni, meglio se di metallo, ma qualunque scatola non trasparente va bene. Se si dispone solo di contenitori di plastica trasparente, si possono avvolgere in carta da regalo in modo che non si possa vedere dentro. Io sono riuscita a recuperare delle scatoline di cartone porta bomboniere. Non sono di latta, più costosa, ma funzionano ugualmente bene.

Nella scatola possiamo mettere: sabbia, farina, riso, una pallina, una graffetta di metallo, un blocchetto di legno, un dado di plastica, una chiave, una carta da gioco, un cappuccio di una penna, una biglia o quello che preferite.

Una volta riempite, le scatole vanno chiuse e il coperchio deve essere sigillato, ad esempio con del nastro adesivo. La cosa fondamentale è che i ragazzi non devono poterle aprire.

Una volta chiuse, le scatole vanno etichettate con un numero da 1 a 6 o, come nel mio caso con l’aggiunta dei seguenti nomi: Dalton, Thomson, Rutherford, Bohr, Heisenberg e Schrödinger (così intanto cominciano a familiarizzare con i nomi di scienziati importanti che incontreranno successivamente).

mystery_boxes_546x345

Per un’attività della durata di un’ora il numero ideale di scatole è sei.

Ad ogni gruppo viene consegnato una scheda per le osservazioni: un foglio A4 con sei riquadri, ciascuno corrispondente ad una delle scatole. Ai lati dei sei riquadri vengono attaccati dei Post-it colorati. La cosa importante è che ciascun gruppo deve avere un Post-it (o altro tipo di foglietto adesivo) di colore diverso in modo da poter identificare facilmente le risposte dei diversi gruppi nella fase di discussione.

Scheda studente

Su una lavagna bianca o su un cartellone da appendere ad una parete dovrete realizzare lo stesso schema con i nomi delle sei scatole.

Prima di cominciare, dividere la classe in sei gruppi e fornire a ciascun gruppo la scheda per le osservazioni con i Post-it di colori diversi. Quindi, distribuire a ciascun gruppo una delle sei scatole.

Lo scopo di questa attività è scoprire con metodi indiretti la forma e le dimensioni degli oggetti sconosciuti nascosti dentro la scatola.

Fase 1: Al lavoro!

Dire ai ragazzi che avranno 2-3 minuti di tempo per osservare la scatola e provare a identificare al meglio cosa c’è dentro.

È molto importante sottolineare che in questa fase devono scrivere quante più considerazioni possibili sugli oggetti mentre testano ed esaminano ciascuna scatola. Queste “osservazioni” saranno poi indispensabili per condividere le idee con gli altri gruppi e argomentare le scelte fatte.

Appena i 2-3 minuti sono trascorsi, i ragazzi devono scrivere sul Post-it corrispondente cosa pensano ci sia nella scatola e poi la passano ad un altro gruppo. I gruppi continueranno in questo modo finché non avranno esaminato tutte e sei le scatole.

Fase 2: riflettere sull’attività (5-10 minuti)

Prima di passare alla discussione a livello di classe su quanto emerso dai vari test è fondamentale dare il tempo e l’occasione ai ragazzi per riflettere sui processi che li hanno portati a identificare gli oggetti dentro le varie scatole.

Quindi si daranno altri 2-3 minuti di tempo per scrivere le abilità e gli approcci che pensano di aver utilizzato per scoprire cosa c’è dentro ciascuna scatola e poi ciascun gruppo condividerà le riflessioni fatte con l’intera classe.

Ad esempio, qualcuno potrebbe dire che per giungere all’identificazione dell’oggetto nascosto siano stati usati i sensi, in particolare l’udito (il suono), ma che è stato necessario utilizzare anche la loro capacità di fare delle stime, di comunicare, di visualizzazione di ciò che hanno percepito/ascoltato.

L’insegnante scriverà alla lavagna quanto emerso nei vari gruppi e poi, facendo sintesi metterà in evidenza che tutto ciò rappresenta proprio il modo in cui gli scienziati lavorano:

  • gli scienziati propongono e testano idee
  • la discussione è una parte fondamentale del processo scientifico
  • la scienza è sia sociale che creativa.

Arrivare a riconoscere tutto ciò come parte del processo scientifico li porta, infatti, ad essere maggiormente consapevoli che creatività, immaginazione e visualizzazione sono tutte parti importanti di questo processo. Inoltre, le discussioni fatte prima in gruppo e poi a livello di classe li rende maggiormente consapevoli del fatto che la scienza è anche un processo sociale.

Finita la riflessione a livello di gruppo si passa ad una discussione a livello di classe

Fase 3: revisione tra pari del lavoro fatto (15 minuti)

Ciascun gruppo attaccherà sulla lavagna, o sul cartellone, un Post-it con il contenuto presunto di ciascuna scatola.

Talk Science teacher training course

Talk Science teacher training course

Si può stimolare la discussione chiedendo di provare a identificare per quale scatola la maggior parte dei gruppi ha dato risposte molto simili o identiche e chiedere cosa questo possa significare.

Poi, si può chiedere di trovare un altro esempio in cui ci sono invece molte differenze nelle risposte. Quindi si chiede a ciascun gruppo di presentare agli altri gruppi le evidenze raccolte per l’individuazione dell’oggetto contenuto in quella scatola cercando di convincerli del fatto che la loro idea sia la più corretta.

Durante la discussione ciascuno dovrà argomentare la propria posizione con le evidenze che ha a disposizione. Ad esempio, qualcuno potrebbe sostenere di non essere d’accordo con la scelta di un altro gruppo perché l’oggetto dentro la scatola ha fatto un suono forte ma lento o un rumore sordo…

Dopo questa discussione dare anche la possibilità ad alcuni gruppi di cambiare idea sul contenuto della scatola nel caso in cui ritengano che ciò che hanno sentito dagli altri gruppi abbia portato nuove evidenze. Ogni gruppo dovrà sempre argomentare la propria scelta con le evidenze a disposizione.

Con questa discussione i ragazzi hanno continuato a lavorare come scienziati e hanno avuto una peer-review del loro lavoro.

Fase 4: conclusione (5 minuti)

Dire ai ragazzi che l’attività è giunta alla conclusione e chiedere se hanno delle domande. Naturalmente i ragazzi vorranno sapere cosa c’è veramente dentro le scatole.

La risposta da dare sarà: non lo so e purtroppo nemmeno voi potrete scoprirlo.

La reazione sarà animata, ma bisognerà sottolineare che le attività che hanno fatto sono una analogia del processo scientifico e che la maggior parte delle volte nemmeno gli scienziati possono “aprire la scatola” per vedere cosa c’è dentro e trovare così una conferma definitiva alla correttezza delle proprie idee. Quando gli scienziati danno risposte basate sulle evidenze alle loro domande di ricerca queste risposte sono sempre “aperte”, soggette cioè a continua revisione man mano che nuove evidenze emergono.

Questo processo è simile a quello che ha portato gli scienziati a rispondere alla domanda “come è fatto l’atomo?” e questo processo, cominciato probabilmente nell’antica Grecia dura ancora ad oggi.

Per saperne di più

Se volete dare un’occhiata a cosa può succedere in classe durante questa attività guardate questo video:



IBSE e natura della scienza – identificare i risultati desiderati

$
0
0

Quando si sente la parola “inquiry” molti pensano subito ad un modo particolare di insegnare e apprendere le scienze. In realtà questo termine è molto più di questo.

Come vi ho già raccontato in post precedenti l’inquiry si riferisce sia ai diversi modi in cui gli scienziati studiano il mondo naturale e propongono spiegazioni basate sulle evidenze derivate dalle loro ricerche, che alle attività degli studenti in cui sviluppano la conoscenza dei concetti scientifici e, al tempo stesso, la comprensione di come gli scienziati studiano il mondo naturale. (NRC, 1996)

Da un punto di vista operativo, l’inquiry è un’attività multiforme che comporta fare osservazioni; porre domande; esaminare manuali e altre fonti di informazione per acquisire quello che è già noto; pianificare investigazioni; rivedere quello che già si conosce alla luce di evidenze sperimentali; usare strumenti per raccogliere, analizzare e interpretare dati; proporre risposte, spiegazioni e previsioni e comunicare risultati. L’inquiry richiede l’individuazione di ipotesi, l’uso del pensiero logico e critico e di considerare spiegazioni alternative” (NRC, 1996) .

Secondo il National Research Council americano quando gli studenti lavorano con un approccio basato sull’investigazione (NRC, 2000) dovrebbero:

  1. essere coinvolti attivamente da domande significative dal punto di vista scientifico;
  2. dare grande importanza alle evidenze attraverso cui sviluppare e valutare le spiegazioni che affrontano le domande scientifiche;
  3. sviluppare e formulare spiegazioni a partire dalle evidenze (dirette e indirette);
  4. valutare tali spiegazioni alla luce delle spiegazioni alternative (confronto tra pari e confronto con le conoscenze scientifiche);
  5. comunicare e giustificare le spiegazioni da loro proposte.

Per fare ciò è necessario che i ragazzi abbiano esperienze dirette e continuative di inquiry. Non si arriva a comprendere la natura della scienza semplicemente imparando termini come ipotesi e inferenza o memorizzando una serie di procedure chiamate col nome di “metodo scientifico”.

Le attività pratiche di per sé non sono però sufficienti. L’esperienza e la comprensione devono procedere sempre insieme. Non è sufficiente, infatti, far esperienza degli elementi fondamentali dell’inquiry ma è necessario che i ragazzi riflettano sulle caratteristiche del processo in cui sono coinvolti.

Tutte le progettazioni basate sul modello del learning cycle delle 5E contengono entrambi questi elementi ma per costruire su fondamenta solide penso sia importante che le classi prime inizino il nuovo anno scolastico lavorando proprio sulla natura della scienza.

Natura della scienza = Metodo scientifico?

Uno dei “miti” più comuni è che ci sia un solo modo di fare scienza e che questo sia il cosiddetto metodo scientifico. Questa sorta di misconcezione è alimentata tutt’ora anche da molti libri di testo. In realtà, non c’è nessun “metodo scientifico”.

Una delle prime cose che i ragazzi dovrebbero imparare è che non esiste un solo modo di fare scienza, che la scienza non è dogmatica ma fluida e che la ricerca scientifica è un processo dinamico, non lineare ma complesso.

La natura della scienza comprende anche caratteristiche che raramente vengono insegnate, come ad esempio i suoi limiti, i suoi livelli di incertezza, i suoi aspetti sociali e le ragioni della sua affidabilità.

La natura della scienza si riferisce a principi chiave e idee che descrivono la scienza come una via di conoscenza, ma allo stesso tempo si riferisce anche alle caratteristiche della conoscenza scientifica. Molte di queste caratteristiche si perdono nella didattica quotidiana e questo comporta che gli studenti non comprendano mai veramente cosa sia davvero la scienza ma apprendano semplicemente nozioni su come viene condotta.

Il mio percorso didattico con i ragazzi di prima inizia proprio da qui.

Comprensioni durevoli

Nel progettare la prima unità sulla natura della scienza sono partita chiedendomi quali fossero le comprensioni durevoli di questo percorso.

Per comprensioni durevoli si intendono le grandi idee, i processi essenziali che sono trasferibili in situazioni nuove.

Per quanto riguarda la natura della scienza, quindi, al termine di questa unità gli studenti dovranno essere in grado di comprendere che:

  1. non esiste un solo modo di fare scienza;
  2. la scienza è una via di conoscenza;
  3. la scienza non è dogmatica ma fluida;
  4. la scienza richiede creatività e immaginazione
  5. le conoscenze scientifiche sono costruite socialmente
  6. le conoscenze scientifiche non emergono semplicemente dai dati ma attraverso il processo di interpretazione e di argomentazione scientifica
  7. la natura della scienza rappresenta il processo attraverso cui gli scienziati formulano e testano le loro spiegazioni sulla natura che è caratterizzato dal:
  • porre domande che possono trovare una risposta per mezzo di investigazioni,
  • progettare e condurre investigazioni scientifiche,
  • analizzare e interpretare i dati
  • pensare in modo logico per fare collegamenti tra le evidenze e le spiegazioni (costruire spiegazioni basate sulle evidenze) e
  • ottenere, valutare e comunicare informazioni (comunicare procedure e spiegazioni)

Quali conoscenze (knowledge) e abilità (skills) fondamentali saranno acquisite dagli studenti come risultato di questa unità?

Per quanto riguarda le conoscenze gli studenti, al termine dell’unità dovranno sapere che:

  • le osservazioni corrispondono ai dati, le inferenze sono deduzioni logiche tratte dai dati e le previsioni sono supposizioni logiche su ciò che accadrà;
  • osservazioni, inferenze e previsioni sono gli elementi necessari per formulare ipotesi e progettare investigazioni
  • le ipotesi sono spiegazioni che vengono proposte per rispondere a una domanda o sono possibili soluzioni per risolvere un problema;
  • gli scienziati devono progettare e condurre un esperimento controllato per testare un’ipotesi
  • gli esperimenti contengono due tipi di variabili, una variabile indipendente che viene testata e una variabile dipendente che viene misurata; gli scienziati usano grafici, tabelle, diagrammi e modelli per analizzare e interpretare i dati raccolti durante un esperimento.

Gli studenti dovranno conoscere anche la differenza tra una teoria a una legge scientifica.

Per quanto riguarda invece le abilità, gli studenti dovranno essere in grado di saper

  • spiegare perché un’osservazione efficace è focalizzata;
  • distinguere un’osservazione da una inferenza;
  • sviluppare una ipotesi sulla base delle loro conoscenze o sulla base delle informazioni in loro possesso;
  • identificare le variabili indipendente, dipendente di un esperimento;
  • progettare un esperimento controllato;
  • analizzare i risultati di un esperimento e creare grafici, tabelle, diagrammi per rappresentare i risultati di un esperimento;
  • spiegare la differenza tra legge e teoria scientifica fornendo esempi.

Domande essenziali

Sono passata poi all’individuazione di quelle che Wiggins e McTighe chiamano domande essenziali, ossia domande che potrebbero guidare il nostro insegnamento e coinvolgere gli studenti nel far emergere e chiarire le idee importanti che costituiscono i nuclei fondanti di una disciplina.

Mi sono quindi chiesta quali domande essenziali guideranno questa unità e focalizzeranno l’insegnamento e l’apprendimento?

  • Che cos’è la scienza?
  • Come fanno gli scienziati a investigare le cose?

(Formulare domande e ipotesi)

  • In che modo le domande sul mondo naturale guidano l’investigazione scientifica per aiutarci a imparare di più?
  • In che modo le conoscenze pregresse o le misconcezioni influenzano la formulazione di una ipotesi?

(Fare ricerca e progettare investigazioni)

  • Quali evidenze sono necessarie per rispondere a una domanda?
  • In quali modi possiamo progettare un’investigazione per testare una domanda?

(Condurre investigazioni)

  • In che modo il processo di un’investigazione influenza gli esiti dei risultati?

(Analizzare, comunicare e applicare)

  • In che modo i dati guidano l’analisi di un’investigazione?
  • Fino a che punto le evidenze supportano o confutano un’ipotesi o portano a spiegazioni e investigazioni alternative?

Tutto questo ha portato infine all’identificazione delle competenze:

competenza NOS

Questa riflessione ha costituito la base su cui progettare le attività da fare in classe e le modalità di valutazione. Se vi va, vi racconto cosa farò in classe nel prossimo post! Intanto una piccola anticipazione :-)

Introduzione alle scienze naturali

P.S.

Se siete interessati ad avere la scheda della programmazione scrivetemi all’indirizzo ibseedintorni@gmail.com


IBSE e natura della scienza – ENGAGE/EXPLORE

$
0
0

La volta scorsa vi ho raccontato le riflessioni fatte prima di progettare le attività da svolgere in classe sulla natura della scienza. Passo quindi a raccontarvi come ho reso operative queste riflessioni. Le attività che sto per raccontarvi sono già state sperimentate in classe con i ragazzi di prima dello scorso anno scolastico, quindi ho potuto “rifinire meglio gli angoli” per ottimizzare risorse e tempi.

Che cos’è la scienza?

Inizierò la lezione partendo dalla prima domanda essenziale: che cos’è la scienza? Lascerò un paio di minuti a ciascuno studente per scrivere sul quaderno la propria risposta e ne discuteremo brevemente qualcuna.

Come sempre in questa fase iniziale di ENGAGE il nostro obiettivo è quello di di creare interesse, generare curiosità e domande nella mente degli studenti, scoprire che cosa sanno già e far emergere eventuali conoscenze errate. Durante questa fase, agli studenti non vengono date definizioni formali su ciò che stanno esplorando, né viene detto loro a quali conclusioni arriveranno, per cui non daremo la risposta “corretta” alla domanda ma proseguiremo con le attività.

La scienza si basa sulle osservazioni…

Attraverso una discussione a livello di classe continuerò con le domande chiedendo quali sono, secondo loro, i metodi e gli strumenti della scienza. Attraverso la discussione arriveremo a dire che tra le varie caratteristiche della scienza c’è il fatto che si basa sulle osservazioni.

Faremo quindi un’attività che metterà alla prova la capacità di osservazione dei ragazzi. Che ne dite di fare una prova anche voi?

Guardate attentamente questo video e contate quante volte la squadra con la maglietta bianca si passa la palla.

Che ne dite?

Quando mostro questo video almeno la metà dei ragazzi non fa caso al gorilla e rimane sbalordita per il fatto di non averlo notato.

Nel caso in cui nella vostra classe ci fosse qualche “YouTube addicted” che abbia già visto il video, sono pronta e rilancio con quest’altro:

La capacità di fare osservazioni è un’attitudine individuale e l’osservazione efficace è selettiva e focalizzata. Per far capire meglio cosa intendo dire tiro fuori una ciotola con delle arachidi e ne faccio prendere una a ciascuno studente.

TYP-477677-3532692_dinostock

Avete due minuti di tempo per disegnare su un foglio bianco la vostra arachide. Fatto? Ok, adesso rimettetela nella ciotola.

Le mescolo un po’ e le rovescio tutte sulla cattedra.

Bene, adesso utilizzate il vostro disegno e cercate di riconoscere la vostra nocciolina nel mucchio.

Caos. È questa? Forse no. Quest’altra? Non saprei… Uffa si assomigliano tutte!!!  :-(

Tempo scaduto! Quanti hanno individuato la propria nocciolina? 

Quali difficoltà avete incontrato? Chi è riuscito riconoscere la propria nocciolina, quali criteri ha utilizzato? Questi criteri sono presenti nel disegno?

Riproviamo! Consegno nuovamente a ciascuno studente un’arachide.

Ora avete due minuti per disegnare la vostra nocciolina. Questa volta dovete osservarla bene e disegnarla in modo da poterla riconoscere fra le tante. Poi utilizzerete il vostro nuovo disegno per cercare di riconoscerla.

Quanti hanno individuato la propria nocciolina? C’è differenza tra il primo e il secondo disegno?

La nuova consegna, con un obiettivo esplicito, ha modificato le vostre osservazioni?

Adesso proviamo a complicare un po’ le cose. Scambiatevi il disegno con un compagno.

Utilizzando il disegno del vostro compagno, dovete riconoscere la sua nocciolina. Avete due minuti!

Com’è andata? Avete avuto maggiori difficoltà rispetto alle prove con la vostra nocciolina? Di cosa avreste avuto bisogno per riuscire a identificarla? Sarebbero state utili delle annotazioni scritte?

Quando si fanno e si registrano osservazioni senza porsi delle domande, senza avere degli obiettivi definiti e chiari, l’osservazione può risultare inefficace. E’ quindi difficile fare delle buone osservazioni se non viene stabilito lo scopo. Lo scopo e la funzione guidano l’osservazione e questa può essere documentata usando varie modalità (iconica, verbale).

…ma anche inferenze

Ci resta ancora un po’ di tempo, quindi facciamo un altro passo in avanti.

Tre anni fa, durante il dottorato, sono stata alla Establish and SMEC Conference, a Dublino, e lì ho avuto la fortuna e il privilegio di partecipare ad un workshop di William McComas, uno dei guru della natura della scienza nel mondo. Ripropongo ai ragazzi le stesse attività che feci io stessa a Dublino, scoprendo un modo nuovo di vedere le cose.

Un altro strumento importante della scienza è l’inferenza.

Inferenza è un qualunque ragionamento con cui si trae una conclusione da un insieme di fatti o circostanze.

Sherlock Holmes e la maggior parte dei detective della TV, ad esempio, usano spesso l’inferenza anche se non è detto che le considerazioni fatte siano “vere”.

Senza titolo

Gli scienziati suggeriscono idee o teorie per provare a spiegare le cose che vedono accadere nel mondo. Spesso testano queste idee conducendo alcuni esperimenti. Qualche volta saltano fuori idee nuove che non concordano con le idee precedenti. Allora devono essere fatti altri esperimenti per verificare se la nuova idea è corretta.

Fare osservazioni, inferenze e previsioni.

Comincio mostrando una slide in cui compare una semplice definizione di osservazione, inferenza e previsione.

Osservazioni = Dati

Inferenze = deduzioni logiche a partire dai dati

Previsioni = supposizioni logiche su ciò che accadrà in futuro basate su dati e deduzioni

Quindi mostro una serie di 12 foto accompagnate da una affermazione e chiedo ai ragazzi di stabilire se si tratta di una osservazione, di un’inferenza o di una previsione. Ecco qualche esempio.

I fiori hanno petali rossi.

I fiori hanno petali rossi. Osservazione, inferenza o previsione?

Il bambino ha le lacrime perciò è triste. Osservazione, inferenza o previsione?

Il bambino ha le lacrime perciò è triste. Osservazione, inferenza o previsione?

Il cane abbaierà presto. Osservazione, inferenza o previsione?

Il cane abbaierà presto. Osservazione, inferenza o previsione?

Per concludere questa prima lezione, come compito a casa, chiedo ai ragazzi di ritagliare un’immagine da una rivista, attaccarla sul quaderno e scrivere una osservazione, un’inferenza e una previsione su quella immagine.

La prossima lezione continueremo l’esplorazione della natura della scienza attraverso un’attività sulle tracce ingannevoli.

Ecco qui un piccolo indizio in attesa del prossimo post.

footprints-mystery-activity

N.B. Se vi interessa la presentazione che uso in classe per guidare queste attività scrivetemi a ibseedintorni@gmail.com

Per saperne di più:

  • William F. McComas, The nature of science in Science Education Rationales and strategies, Kluwer Academic Publisher, 1998.

P.S. Ringrazio la mia collega e amica Mariangela Fontechiari, molte volte compagna di avventure, per il lavoro di collaborazione e scambio di idee durante la rielaborazione di queste attività.


IBSE e natura della scienza – explore (seconda parte)

$
0
0

Travolta… non da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto, ma dal “solito” travolgente inizio dell’anno scolastico. Lezioni da preparare, consigli di classe, riunioni di programmazione…

Travolta… ma di nuovo qui pronta a scrivervi. Dalla pubblicazione del mio ultimo post ho ricevuto mail di colleghi che mi hanno riempito di gioia. Non solo per i complimenti, naturalmente graditi, ma per la voglia di fare e condividere che trasuda dalle loro parole. Siamo tanti, davvero tanti a vivere questo lavoro con passione e dedizione, sacrificando molto del nostro tempo libero per cercare di lavorare sempre meglio.

Non voglio lanciare anche da qui una ennesima (legittima) polemica verso tutto quello che sta succedendo nella scuola. Non mi piace l’idea del solito, anche se giustificato, lamento. Oggi voglio semplicemente constatare e celebrare quello che vedo grazie al web, ma soprattutto che vedo ogni giorno nella mia scuola dove quasi la totalità dei docenti è appassionato e lavora duramente.

Io sono sicuramente fortunata a lavorare in un ambiente così, con persone così in gamba, ma grazie al web, alle mail che mi mandate, a quelli di voi che a volte ho la fortuna di incontrare, io so che siete, permettetemi l’immodestia, siamo in tanti anche se nessuno parla mai di noi. La qualità, la professionalità, la passione non fa mai notizia. Quindi anche se molti di noi si dedicano con passione all’insegnamento, si parla solo di loro, dei pochi in cui la luce si è ormai spenta e dei rari che la luce accesa non l’hanno mai avuta.

Lo ripeto, non voglio fare polemica, sui social si discute già abbastanza (giustamente). Queste mie parole vogliono, invece, essere un lungo e sentito applauso a tutti voi, e permettetemi ancora, noi, che ogni giorno siamo qui alla nostra scrivania, con il naso sui libri o tra le pagine del web a cercare e studiare per provare strade nuove per loro, i nostri ragazzi, a cui teniamo come fossero figli nostri, con la speranza di accendere quella fiammella senza la quale nemmeno noi saremmo qui a scrivere e a parlare.

Applause

Va bene, ho capito…basta così ☺

Torniamo all’IBSE e alla natura della scienza. Dove eravamo rimasti? L’attività sulle tracce ingannevoli, certo! Anche questa attività l’ho sperimentata direttamente con William F. McComas, a Dublino. Come sempre vi consiglio la lettura del suo libro “The nature of Science in Science Education. Rationales and Strategies”  (si trova anche usato), ma per farvi un’idea della pedagogia che sta alla base di queste attività e dell’importanza dell’insegnamento della natura della scienza in modo più “attivo” potete anche cominciare a leggere questo “The nature of science in Education. An introduction.”  L’attività originale, presente nel libro di McComas è di Norman Lederman e Fouad Abd-el-Khalick, ma potete trovarne una versione anche qui. Bene! Dopo avervi dato i dovuti riferimenti, vi racconto com’è andata in classe e cosa ho fatto esattamente.

Usare l’inferenza per risolvere il problema delle tracce ingannevoli. (60 minuti circa)

Se ricordate, i ragazzi a questo punto della lezione avevano già lavorato sulla differenza tra osservazione e inferenza (prerequisiti per questa attività). La lezione successiva ho cominciato proiettando una parte dell’immagine delle tracce (per darvi un’idea solo il rettangolo a sinistra-position1. Per motivi di copyright non posso pubblicare qui l’immagine realmente utilizzata tratta dal libro di McComas, ma ho trovato questa nel web).

Individualmente, osservate attentamente le tracce e scrivete una breve descrizione di ciò che pensate sia accaduto. Avete 3 minuti!

Trascorso questo tempo (uso sempre il timer del cellulare), ho chiesto ai ragazzi di condividere con la classe il loro racconto. Come sempre i ragazzi sono pieni di fantasia e davvero attenti ai particolari.

Mentre scrivevano sul quaderno le loro storie li ho osservati attentamente. Alcuni hanno subito cominciato a scrivere e non finivano più, ma altri erano davvero perplessi e li ho visti un po’ smarriti. Quando ho chiesto di condividere i loro racconti ho cominciato lasciando parlare parlare per primi un paio di “entusiasti” ma poi ho chiesto a quelli che ho visto più in difficoltà di raccontare la propria storia.

Quando si comincia a lavorare in modo non frontale con ragazzi che non sono abituati e/o che non ti conoscono ancora bene (nel mio caso entrambe le cose visto che si tratta di ragazzi di prima e siamo ancora a settembre!) è fondamentale che capiscano che possono fidarsi del loro intuito e dei loro pensieri e che non si sentano mai giudicati. La fiducia nell’insegnante in questa fase è essenziale. Devono capire che non ci si aspetta da loro che sappiano già tutto in anticipo, che non sempre c’è una risposta esatta da dare, ma che si sta chiedendo loro di riflettere e dire sinceramente cosa pensano. Il rinforzo positivo è essenziale sempre, ma quando devono mettersi in gioco su cose mai viste/fatte è fondamentale.

Dopo qualche minuto di discussione a livello di classe, dove la maggioranza ha attribuito le impronte a uccelli di specie diversa, di sesso diverso o di dimensioni diverse, ho mostrato una parte più ampia del disegno delle tracce (ho aggiunto il rettangolo centrale della position 2).

Ora in gruppi di due, osservate le nuove tracce e stabilite cosa può essere successo qui.

Quasi tutti hanno pensato a un combattimento tra i due, qualcuno, invece, ad una sorta di danza di corteggiamento. Infine ho mostrato il disegno completo.

E ora? Cosa ne pensate?

Dopo aver lasciato 2-3 minuti per confrontarsi e decidere e condiviso a livello di classe alcune delle storie ho chiesto:

Sulla base di quanto avete scoperto finora, pensate che riuscirete mai a sapere cosa sia accaduto veramente? Cosa potreste fare per scoprire qualcosa di più? Avete al massimo 10 minuti per discuterne.

Naturalmente i ragazzi ritengono che sia impossibile sapere esattamente cosa sia successo e pensano che un modo per provare a capire meglio sarebbe cercare di identificare a chi appartengono le impronte per documentarsi, ad esempio, sui loro stili di vita.

Secondo voi, di chi sono le impronte?

La maggior parte pensa si tratti di uccelli, ma una ragazza rilancia dicendo che potrebbero essere anche canguri. A questo punto la discussione si accende perché molti sostengono che i canguri lascerebbero anche l’impronta delle code e nel disegno non si vedono. Da qui partono un sacco di idee ma le devo arginare per andare avanti.

Analizziamo meglio le impronte… potrebbero in effetti essere uccelli?

Canguri?

O Dinosauri?

I dinosauri piacciono sempre molto, ma naturalmente il punto è che non possiamo saperlo con certezza con quello che abbiamo a disposizione.

Prima di andare avanti vi racconto altre storie possibili.

Un uccello grande e un uccello piccolo hanno combattutto e quello grande ha vinto. Un’anatra e un uccello piccolo hanno combattuto e l’uccellino piccolo è volato via. Un’anatra e un piccolo uccello hanno combattuto e l’uccellino è saltato sopra quello più grande. Le impronte non sono state lasciate nello stesso momento così non c’è alcuna storia tra i due. Forse un uccello aveva lasciato del cibo in un punto e un uccello più piccolo lo ha trovato. Una mamma canguro e il suo piccolo stavano camminando insieme finchè il piccolo si è infilato nel marsupio per fare un pisolino. Forse i due animali stanno entrambi camminando all’indietro Le due piste sono state fatte da un maschio e da una femmina della stessa specie. Il maschio più grande ha cercato di corteggiare la femmina, ma lei ha preso le distanze.

Abbiamo raccontato tante storie, ma quali sono le osservazioni che avete fatto sull’immagine che vi ho mostrato?

I ragazzi riprendono parti della loro storia e per lo più parlano di impronte grandi e piccole.

In realtà si potevano osservare solo due insiemi di segni neri: uno di segni più grandi a sinistra e uno di segni più piccoli a destra, c’è poi un’area in cui i segni neri si mescolano. Quelle che voi avete definito osservazioni sono invece…

Inferenze, rispondono, rendendosi conto ancora una volta che non è ancora facile per loro distinguere un’osservazione da una inferenza. Ragionano ancora in modo automatico, ma è naturale. Ne discutiamo ancora un po’.

Allora… ancora una volta abbiamo cercato di lavorare “pensando come scienziati”. Attraverso le attività che abbiamo fatto in questi giorni abbiamo compreso che il lavoro degli scienziati comporta osservazioni e inferenze, che ci sono spesso molte risposte plausibili alle domande che gli scienziati si pongono partendo dalle osservazioni fatte, che queste risposte devono avere coerenza con le evidenze sperimentali e che non si può mai trovare la risposta assolutamente certa, immutabile e definitiva! Osservazioni, inferenze e previsioni sono gli elementi necessari per formulare IPOTESI e progettare investigazioni. Ma cos’è un’ipotesi?

Spesso confondono le ipotesi con le previsioni. Li lascio rispondere e confrontarsi un po’ e poi fornisco una definizione.

Un ‘ipotesi è una supposizione, un’idea provvisoria, una possibile spiegazione di un fatto o di un fenomeno, una possibile risposta ad una domanda di ricerca. Un’ipotesi non è necessariamente valida, ma deve essere plausibile e pertinente alla domanda di ricerca. Deve anche essere testabile/verificabile. Osservate questa foto:

Ragioniamo insieme sulle osservazioni (ad esempio c’è un orso, ci sono dei pesci, c’è dell’acqua con la schiuma) e sulle possibili inferenze (ad esempio, l’acqua scorre rapida perché c’è la schiuma bianca). Qualcuno ipotizza che i pesci siano salmoni perché sembrano saltare a ritroso lungo il fiume, altri dicono che stanno saltando e basta e che potrebbero anche essere trote. Proietto questa affermazione:

I salmoni nascono in acque dolci fredde, migrano verso il mare, dove trascorrono gran parte della loro vita, poi ritornano nello stesso luogo in cui sono nati per riprodursi. Questa è una osservazione o una inferenza?

Qualcuno pensa ancora si tratti di una inferenza, ma molti hanno cominciato a ragionare bene e supportano il fatto che si tratti di una osservazione. Mostro un breve video che racconta le osservazioni degli scienziati sulla vita dei salmoni e poi chiedo:

Come fanno i salmoni a ritornare dove sono nati?

Dopo aver ascoltato ciò che sanno sui salmoni, propongo due possibili ipotesi:

Ipotesi 1: I salmoni memorizzano il tragitto percorso.

Ipotesi 2: I salmoni utilizzano come bussola per le grandi distanze il campo magnetico terrestre e poi si orientano con vista e olfatto quando sono in prossimità del luogo da raggiungere.

Voglio spiegare loro la natura del processo scientifico attraverso questo esempio, per cui parto dicendo che l’ipotesi 2 è quella al momento maggiormente supportata da evidenze. Leggiamo quindi un estratto da un articolo tratto Focus:

Secondo uno studio condotto da Kenneth Lohmann dell’Università del North Carolina a Chapel Hill e dai suoi collaboratori, i salmoni, la prima volta che guadagnano il mare, sarebbero infatti in grado di memorizzare le caratteristiche del campo magnetico per sfruttarle quando, intorno ai 4 anni di età, dovranno cercare il luogo dove sono nati. All’inizio del 2013 un nuovo studio, della Oregon State University, ha confermato questa teoria studiando i dati raccolti in 56 anni di osservazioni delle migrazioni dei salmoni rossi (Oncorhynchus nerka) dall’oceano al fiume Fraser in British Columbia. La rotta seguita dai pesci intorno all’isola di Vancouver sembra essere determinata proprio dalla percezione dei cambiamenti dell’intensità del campo magnetico.

Ne discutiamo un po’ e prima di concludere la lezione pongo ancora una volta  l’accento sulla differenza tra ipotesi e previsione sottolineando che è proprio sulla base delle ipotesi vengono formulate le previsioni, che servono per progettare la verifica delle ipotesi fatte: un’investigazione/un esperimento per la raccolta di dati/osservazioni.

A questo punto siamo pronti per esplorare le investigazioni scientifiche. Cubi misteriosi ci attendono!

Se volete il ppt per proporre questa attività in classe scrivetemi come sempre a ibseedintorni@gmail.com


IBSE e natura della scienza: raccontare una bella storia (ultima parte)

$
0
0

Che ne pensate? Mentre i nostri ragazzi studiano la cellula, l’evoluzione, la genetica, la tettonica delle placche o la tavola periodica oltre ad imparare concetti assolutamente fondamentali stanno comprendendo anche cosa sia la scienza?

Quanto è importante comprenderne davvero la natura? Per formare i cittadini di domani, o magari i futuri scienziati, è sufficiente conoscere i “prodotti” della scienza o è altrettanto fondamentale comprenderne i “processi”?

Quando un giorno i ragazzi si troveranno a dover prendere decisioni per la loro vita come ad esempio decidere se il cibo Ogm è sicuro o meno, se vale la pena spendere i propri risparmi per istallare un impianto fotovoltaico sul tetto della propria abitazione o se il tanto discusso cambiamento climatico è qualcosa di cui preoccuparsi davvero o meno, pensate che sarà sufficiente aver studiato a scuola cosa siano OGM, energia o atmosfera? Temo di no.

Al di là delle opinioni personali, le ricerche ci invitato a riflettere sull’importanza di lavorare di più anche su questo aspetto dell’apprendimento delle scienze. Per essere cittadini dotati di literacy scientifica non solo è necessario possedere le conoscenze scientifiche ma è altrettanto importante avere consapevolezza di come tali conoscenze sono state prodotte e anche quanto siano attendibili.

Ma è possibile comprendere la natura della scienza studiandone le caratteristiche in un paragrafetto di un libro di testo intitolato “il metodo scientifico”? L’ho già detto altre volte ma non sembra anche a voi che spesso si riduca tutto ad una ripetizione mnemonica di una serie di passaggi che per i ragazzi non significano assolutamente niente e che a volte portano addirittura ad una visione addirittura un po’ “dogmatica” della scienza?

La questione è così importante che i nuovi standard educativi americani (NGSS) esplicitano chiaramente non solo l’importanza di promuovere un apprendimento dei contenuti scientifici attraverso l’inquiry ma ogni standard presenta intrecci anche con la natura della scienza.

Le attività basate sull’inquiry, già molto “immerse” nei processi scientifici, sono sufficienti per comprendere veramente la natura della scienza?

Nei nuovi standard educativi si può leggere che, in realtà, può non bastare:

comprendere la natura della scienza richiede qualcosa di più che essere coinvolti in attività e condurre investigazioni (Appendice H, pag. 96).

I principi della natura della scienze devono essere insegnati in modo esplicito, ma questo non significa che debbano essere imparati a memoria. Ciò che si dovrebbe fare, invece, è  incorporare questo aspetto in tutte le attività di insegnamento.

Negli ultimi due post vi ho mostrato parti del mio percorso introduttivo alle scienze (“accoglienza” scientifica per le classi prime) focalizzato proprio sulla natura della scienza. La conclusione di queste attività ha previsto l’analisi di un caso di studio relativo alla storia della scienza che non solo ha permesso di comprendere da dove provengono le conoscenze scientifiche, ma anche di mettere in evidenza che le scoperte scientifiche derivano da sforzi creativi, che la conoscenza scientifica è provvisoria ma al contempo durevole e si basa su evidenze che provengono dal mondo naturale.

In fondo, cosa c’è di più bello che raccontare storie?

Immaginate di poter andare indietro nel tempo. 100 milioni di anni fa, il clima era caldo e umido e gli animali che dominavano la Terra erano molto diversi da quelli che conosciamo oggi.

Dalle registrazioni fossili sappiamo che rettili giganti popolavano le terre emerse, pterosauri volanti solcavano i cieli e feroci mososauri si aggiravano negli oceani in cerca di prede. Oggi sappiamo che questi animali non ci sono più, sono scomparsi. Perché? Cosa ha causato l’estinzione dei dinosauri? E come facciamo a saperlo?

Scrivete sul quaderno la tua risposta e preparati a discuterla con la classe.

Esplorare i processi della scienza

Verso la fine degli anni ’70 erano state formulate molte ipotesi per spiegare l’estinzione di massa verificatasi circa 65 milioni di anni fa (utilizzata per definire il confine tra i periodi Cretaceo e Terziario) in cui si estinse quasi il 75% di tutte le specie viventi, vegetali e animali, tra cui anche i dinosauri. Tra le possibili cause di questa grande estinzione vi erano graduali o lenti cambiamenti nelle condizioni oceaniche, atmosferiche, climatiche dovute a casuali o cicliche coincidenze di fattori, un’inversione del campo magnetico terrestre, un evento di supernova vicino al nostro sistema solare… insomma molte possibili cause, molte prove indirette e nessun accordo tra gli scienziati.

Nel 1977, a Gubbio, presso la Gola del Bottaccione, mentre stava raccogliendo campioni di roccia per una sua ricerca, il geologo Walter Alvarez scoprì un piccolo strato di argilla spesso circa 1 cm, quasi del tutto privo di fossili che conteneva una quantità insolitamente alta di alcuni elementi piuttosto rari sulla superficie terrestre, tra cui l’iridio. Questa scoperta avrebbe portato alle prime evidenze fisiche dirette del verificarsi di un evento insolito proprio nel momento di quella grande estinzione di massa.

Oggi sappiamo che questo sottile strato di argilla, che si trova tra strati di rocce di età diversa, documenta la fine del periodo Cretacico (e quindi dell’era Mesozoica) e l’inizio dell’era Terziaria. Questo periodo di tempo, chiamato dai geologi limite K-T, dove K sta per Cretaceo e T per Terziario appunto, corrisponde a circa 65 milioni di anni fa e anche al momento in cui i dinosauri, insieme a molte altre specie animali e vegetali, scomparvero.

(Mostrando la foto) Questi sono gli strati rocciosi (calcari e argille) presenti nella gola del Bottaccione, vicino Gubbio, che si sono formati milioni di anni fa sul fondo di un mare aperto e profondo. Questi strati si sono depositati lentamente nel tempo e poi, spinti da forze tettoniche, sono stati piegati e sollevati.

Studiando i fossili presenti in quelle rocce, Walter Alvarez trovò che lo strato di calcari bianchi (a destra nella foto) più antichi, sottostanti lo straterello di argilla, conteneva una gran quantità di foraminiferi (microscopici organismi marini) di specie diverse, abbondanti e grandi come granelli di sabbia. Nel piccolo strato scuro di argilla, invece, questi organismi sono quasi del tutto assenti, mentre negli strati soprastanti più recenti, del Terziario, se ne trovano solo poche specie, con dimensioni molto più piccole di quelle più antiche.

Come mai? Cosa può aver causato la scomparsa di questi piccoli foraminiferi? Cos’hanno a che fare questi foraminiferi con l’estinzione dei dinosauri?

Il piccolo strato di argilla, che come abbiamo detto viene chiamato limite K-T (oggi in realtà chiamato limite K-Pg), si è depositato in fondo all’oceano circa 65 milioni di anni fa, proprio nello stesso periodo in cui anche i dinosauri scomparvero.

Può esserci un legame tra questi fatti? Cosa è accaduto 65 milioni di anni fa?

Per rispondere a questa domanda i geologi non si sono limitati allo studio dei fossili. Le stesse osservazioni (che chiameremo evidenze scientifiche), infatti, possono essere interpretate in modi diversi e supportare, quindi, spiegazioni differenti (che chiameremo ipotesi).

Walter Alvarez e il suo team di scienziati (che includeva suo padre Luis Alvarez, Frank Asaro e Helen Michel) scoprirono che queste rocce, formatesi in mare aperto e profondo, contenevano quantità di metalli del gruppo del Platino, tra cui l’iridio, insolitamente alte rispetto alla quantità media normalmente presente sulla superficie terrestre (guardate sulla tavola periodica dove si trovano questi metalli!).

Grazie a una tecnica chiamata analisi per l’attivazione neutronica, in grado di misurare con grande precisione elementi presenti in tracce in un campione, Alvarez e il suo team riuscì a determinarne la concentrazione: ben 30 volte più alta del solito!

Sulla superficie terrestre l’Iridio è un metallo molto raro mentre si ritiene che sia presente in quantità maggiori all’interno della Terra, nel nucleo, dove probabilmente è sprofondato legandosi al ferro, un altro metallo molto denso, durante la fase di raffreddamento e differenziazione della Terra proprio a causa di questa densità elevata. Studi precedenti avevano mostrato, però, che, pur rimanendo sempre un elemento presente in tracce, l’iridio si trova più facilmente in meteoriti e asteroidi e che la presenza di questo metallo in strati di rocce sedimentarie può quindi derivare da polveri formatesi quando un meteorite attraversa l’atmosfera terrestre che si sono poi depositate nei fondali oceanici.

La questione divenne ancora più interessante quando la stessa “anomalia” nella concentrazione di Iridio fu scoperta anche in altri strati rocciosi rinvenuti in Nuova Zelanda e in Danimarca, rispettivamente 160 e 20 volte maggiori rispetto alla norma, oltre che in altre zone del mondo.

Perché 65 milioni di anni fa si è depositato così tanto Iridio in tutto il mondo? Cosa è successo?

Le analisi mostrarono quindi che l’abbondanza di iridio era compatibile con una provenienza extraterrestre (meteorite o asteroide) e incompatibile con la concentrazione di questo metallo nella crosta, quindi diventava sempre più plausibile che l’iridio si fosse depositato sulla Terra a seguito di un evento catastrofico come l’impatto con una cometa o un asteroide o addirittura ad un evento di supernova (fase finale della vita di una stella di grande massa, che studieremo più avanti) vicino al sistema solare.

Impatto o esplosione di supernova?

L’esplosione di una supernova vicino al nostro sistema solare è un evento di per sé rarissimo ma fu presa in considerazione in quanto teoricamente possibile. Se 65 milioni di anni fa si fosse effettivamente verificata l’esplosione di una supernova, oltre all’iridio le analisi avrebbero dovuto riscontrare anche altri elementi più pesanti tra cui il Plutonio-244, un isotopo molto raro, che, invece, non fu trovato se non come impurità.

Nel 1980, Alvarez e i suoi collaboratori pubblicarono sulla rivista Science le loro conclusioni in un articolo dal titolo “Extraterrestrial Cause for the Cretaceous-Tertiary Extinction” (Cause extraterrestri per l’estinzione del Cretaceo-Terziario): 65 milioni di anni fa un corpo di grandi dimensioni ha colpito la Terra, sollevando uno strato di polveri tale da circondare l’intero pianeta per mesi bloccando i raggi solari e, di conseguenza, anche la fotosintesi e questo fatto portò all’estinzione dei dinosauri e di molte altre forme di vita.

Quando Alvarez propose l’ipotesi dell’impatto, la comunità scientifica fece molta resistenza, sostenendo un’ipotesi precedente secondo cui l’estinzione di massa fu causata dal cambiamento climatico prodotto da una attività vulcanica massiva, a sostegno della quale c’erano le migliaia di km2 di rocce vulcaniche indiane note come Trappi del Deccan.

Un punto debole nell’ipotesi di Alvarez era la mancanza della cosiddetta “pistola fumante”, ossia di un cratere da impatto di età e dimensioni giuste.

Per molto tempo questo cratere fu cercato in lungo e in largo, ma senza successo. C’era, inoltre, la possibilità che l’asteroide fosse caduto in mare, cosa molto probabile visto che gli oceani ricoprono i 4/5 della superficie terrestre, e in questo caso il cratere non sarebbe mai stato trovato.

Ad un certo punto, però, emersero nuove scoperte che cominciarono a rafforzare l’ipotesi dell’impatto. Non riuscendo a trovare il cratere, le ricerche si concentrarono sui possibili detriti che l’impatto con un asteroide avrebbe potuto produrre e lanciare nell’atmosfera. E così l’ipotesi dell’impatto trovò nuove evidenze in suo favore.

Vennero, ad esempio, ritrovate tracce di rocce metamorfiche, che i geologi chiamano “impattiti”, in cui i cristalli di quarzo assumono un aspetto particolare, striato, chiamato quarzo da shock o “shocked quartz”. In un minerale, questo tipo di striature si forma proprio a causa dell’ impatto con un meteorite o un asteroide.

Inoltre, nello strato di argilla corrispondente al limite K-T, oltre all’anomalia nella quantità di iridio sono state rinvenute microscopiche sferule ricristallizzate, ossia gocce condensate di materiale roccioso fuso a causa dell’impatto scagliate nell’atmosfera.

Finalmente, nel 1991, a Chixulub, nella penisola dello Yucatan, in Messico, sepolto sotto un km di rocce sedimentarie del Terziario, fu trovato il cratere, metà sotto la terraferma e metà sotto al mare (Golfo del Messico), largo 180 km e profondo 20 km. A questo punto l’ipotesi di Alvarez, supportata da nuove evidenze, divenne la più consistente.

Stando alle dimensioni del cratere, l’asteroide doveva avere un diametro di ben 10 km! Riuscite a immaginarlo? L’impatto con un corpo di queste dimensioni è in grado di liberare un’energia superiore a quella emessa da 10 milioni di bombe atomiche! Le conseguenze a livello locale furono sicuramente drammatiche ma quelle più gravi si ebbero su scala globale.

È molto probabile, infatti, che la variazione nella quantità di luce solare dovuta al lancio di polveri nell’atmosfera distrusse la catena alimentare alla base, interrompendo la fotosintesi ed eliminando così i consumatori primari, ma questo fatto portò, di conseguenza, all’estinzione tutti i vertebrati di peso superiore a 25 kg. Anche il clima cambiò drasticamente e ci furono forti diminuzioni delle temperature e la produzione di piogge acide, una sorta di “inverno nucleare”.

Nonostante gran parte della comunità scientifica oggi sostenga la validità di questa ipotesi, in quanto supportata da numerose evidenze, per molto tempo parte della comunità scientifica continuò a rimanere scettica e a considerare anche altre ipotesi.

Nel marzo del 2010, però, un gruppo di 41 scienziati ha pubblicato un articolo, sempre sulla rivista Science, dal titolo “L’impatto dell’asteroide a Chicxulub e l’estinzione di massa al confine tra Cretaceo e Paleogene” (The Chicxulub Asteroid Impact and Mass Extinction at the Cretaceous-Paleogene Boundary), in cui è stata dichiarata la fine di una controversia durata 30 anni sulla possibile causa dell’estinzione dei dinosauri (asteroide o eruzioni vulcaniche). Dopo un’esauriente revisione di tutti i dati a disposizione, il verdetto è stato emesso a favore dell’ipotesi dell’impatto di un asteroide.

Adesso, in gruppo, provate a riflettere:

  1. Quali sono le osservazioni di partenza di questo caso di studio?
  2. Qual è la domanda suggerita dalle osservazioni iniziali?
  3. Quali sono le ipotesi formulate?
  4. Su quali dati si basano le diverse ipotesi?
  5. Le due ipotesi principali vengono verificate sperimentalmente?
  6. Lo studio di Alvarez si può considerare una ricerca scientificamente valida in quanto basata sul metodo scientifico? Argomentate la vostra risposta verificando la presenza delle cinque caratteristiche essenziali di una investigazione scientifica.
  7. Possiamo affermare con assoluta certezza e in modo definitivo che i dinosauri si estinsero a causa dell’impatto con un asteroide 65 milioni di anni fa?

Caratterisitche dell’inquiry scientifico:

Porre domande che possono trovare una risposta per mezzo di investigazioni
Progettare e condurre investigazioni scientifiche
Analizzare e interpretare i dati
Costruire spiegazioni basate sulle evidenze
Comunicare procedure e spiegazioni

Per saperne di più:

  • The day the Mesozoic died
  • Su segnalazione della collega Adele Riccetti: Le montagne di san Francesco. Perché nel cuore dell’Italia si nascondono i segreti della Terra (Collana Le terre), di Walter Alvarez (2010), Editore Fazi.

 


Letto e fatto: il solitario chimico

$
0
0

La settimana scorsa ho letto un articolo scritto da un gruppo di docenti e ricercatrici, Joanna Philippoff, Kenesa Duncan Seraphin, Jennifer Seki e Lauren Kaupp, intitolato “Chemical solitaire“, ossia il solitario chimico, pubblicato sul numero di ottobre di “The science teacher“, in cui le autrici descrivono un’attività che sfrutta la storia dello sviluppo della tavola periodica non solo per promuovere la comprensione degli studenti su come gli elementi vengono organizzati nella tavola ma li aiuta anche a comprendere meglio la natura della scienza concentrandosi in particolare su tre aspetti: il fatto che la conoscenza scientifica sia aperta a revisioni alla luce di nuove evidenze, che si basa su evidenze empiriche e che la scienza è uno sforzo umano (NGSS Lead States 2013).

Nel corso dei 124 anni modellizzati nell’attività, il progresso nella tecnologia ha permesso la scoperta di nuovi elementi e delle proprietà degli elementi e così gli scienziati hanno modificato l’organizzazione esistente degli elementi alla luce delle nuove evidenze. Allo stesso modo gli studenti modificano le loro spiegazioni scientifiche sulla base di nuove evidenze mentre sviluppano strategie di classificazione degli elementi e riflettono sui loro ragionamenti confrontando i loro schemi di classificazione con quelli dei compagni e degli scienziati della storia.

Articolo giusto al momento giusto. Mi lancio e lo faccio? Sì!

Perchè “solitario chimico”?

Le autrici raccontano che aneddoti storici riferiscono che il chimico russo Dmitri Mendeleev avesse scritto i pesi e le proprietà degli elementi noti su delle carte e che giocasse ad una sorta di solitario chimico cercando di organizzarli.  Queste carte, in realtà, non sono mai state trovate ma l’analogia con il gioco è sicuramente utile e incoraggia i ragazzi a riflettere sui diversi modi di classificare gli elementi: nel solitario si organizzano le carte sulla base del seme e del valore, Mendeleev sviluppò una tavola periodica organizzando gli elementi sulla base del peso e delle proprietà.

Tre set di carte

le carte degli elementi sono suddivise in tre set che corrispondono a significativi avanzamenti nella comprensione di come si possano organizzare gli elementi.

Nel SET A sono contenuti 27 elementi contenuti nell’elenco delle sostanze semplici sviluppato dal chimico francese Antoine-Laurent Lavoisier. Sulle carte viene indicato l’anno 1789 che è quello in cui Lavoisier pubblicò la sua tavola.

Nel SET B sono contenuti altri 30 elementi conosciuti nel 1869, anno in cui Mendeleev costruì la sua prima tavola periodica.

Nel SET C sono compresi altri 11 elementi, noti nel 1913 quando risistemò la tavola periodica sulla base del numero atomico.

Nei set non sono compresi tutti gli elementi effettivamente noti, per consentire agli studenti di maneggiare un numero di carte non troppo elevato. La progressione degli elementi nei vari set segue la scoperta storica e permette ai ragazzi di cominciare a disporre per primi gli elementi che sono per loro più familiari. Le autrici hanno scelto di inserire nel set finale gli elementi noti nel 1913 per poter aggiungere i gas nobili e poter così riempire gli eventuali “buchi” nei loro modelli.

Ciascuna carta del set presenta il nome dell’elemento, il simbolo chimico, il peso, lo stato di aggregazione a temperatura ambiente, la valenza e la reattività per gli elementi che sono in gruppi con proprietà chimiche simili (gruppi 1, 2, 17 e 18). Per esempio, nelle carte dei metalli alcalini c’è scritto “reagisce vigorosamente con l’acqua” mentre nelle carte degli alogeni c’è scritto “reagisce con i metalli per formare sali”.

La mancanza, in qualche caso, di accuratezza storica è una scelta per supportare la comprensione degli studenti. Alcune delle proprietà indicate nelle carte, ad esempio, erano sconosciute nel 1789 e al contempo nelle carte più recenti sono state tralasciate altre proprietà che invece sono state scoperte nel tempo. Viene usato il termine valenza, sconosciuto ai tempi di Mendeleev, invece di elettroni di valenza, concetto proposto dal chimico Gilbert Lewis nei primi anni del XX secolo. Allo stesso modo usano il peso atomico invece della massa atomica in accordo con la terminologia utilizzata da Mendeleev.

Lo scopo di questa attività non è quello di portare i ragazzi a costruire la tavola periodica moderna, ma utilizza un approccio storico con informazioni modificate per semplificare l’attività. Le serie dei lantanidi e degli attinidi, ad esempio, sono escluse per limitare il numero degli elementi che gli studenti devono organizzare.

Tempo necessario60 minuti per svolgere l’attività e un ulteriore periodo di 30 minuti per la discussione.

Prima dell’attività ho tradotto e stampato le carte degli elementi, le ho ritagliate e collocare in tre buste etichettate Set A, Set B e Set C.

I miei studenti conoscevano già cosa si intende per elementi e la differenza tra elementi e composti per cui non è stato necessario esplorare le loro preconoscenze sull’argomento. Ho detto però agli studenti che sulle carte avrebbero potuto trovare delle proprietà che ancora non conoscono ma che per svolgere l’investigazione non sarebbe stata necessaria la comprensione di tutte queste proprietà. Questa attività vuole essere, infatti, una esplorazione scientifica e della storia della scienza. Questa attività modellizza l’approccio e le difficoltà degli scienziati del passato: anche gli studenti “scopriranno” in modo sequenziale nuovi elementi. Man mano che ricevono informazioni dovranno incorporarle nel loro sistema di organizzazione. Alla fine dell’attività, gli studenti dovranno non solo condividere il loro modello finale ma anche il ragionamento che sta dietro al loro schema di organizzazione.

Al lavoro!

Ho diviso gli studenti in 6 gruppi (avete idea di quante carte ho dovuto ritagliare!!!!) e ho dato circa 10 minuti per organizzare le carte del Set A. La consegna è stata quella di  sviluppare un sistema di organizzazione degli elementi basata sulle loro proprietà fisiche. Poiché il Set A include elementi che si trovano sparsi nella tavola periodica per i ragazzi è stato difficile riuscire a trovare dei trend per questi elementi. Questa difficoltà è proprio ciò che imita il processo storico di scoperta: c’è stato bisogno di scoprire un maggior numero di elementi prima di riuscire a individuare dei trend.

IMG_7847

Ho lasciato poi altri 10 minuti per il Set B e altri 10 minuti per il Set C indicando di concentrarsi anche sulle proprietà chimiche.

IMG_7848

IMG_7865

Man mano che gli studenti hanno ricevuto nuove informazioni, li ho incoraggiati a modificare il proprio modello, a riflettere sulle ragioni della loro organizzazione e annotare il loro processo di riflessione.

Le autrici consigliano di supportare l’attività dei ragazzi con questo tipo di domande:

  • Quali informazioni state usando per decidere come disporre gli elementi?
  • Perché il vostro gruppo ha messo questi elementi insieme?
  • Perché pensate che queste carte sembra che non si “accordino” con il resto?
  • In che modo potreste trovare connessioni tra elementi o gruppi di elementi? 

Ho detto ai ragazzi di scattare delle fotografie del loro lavoro con i tre diversi set per poterli poi consultare successivamente in fase di riflessione per prepararsi alla discussione.

È cruciale per gli studenti costruire e rivedere almeno tre modelli differenti di disposizioni periodiche. All’inizio tirano fuori un modello sulla base di dati limitati quindi modificano le loro idee man mano che nuove informazioni vengono alla luce. Questo processo simula come, man mano che la tecnologia avanzava e nuove evidenze venivano scoperte, modelli, come i sistemi di classificazione, sono cambiati nel tempo.

Secondo le autrici, valutando e rifinendo i loro modelli, gli studenti sviluppano una comprensione di come i modelli abbiano un potere predittivo e di spiegazione. Quando confronteranno (lo farò domani!) la loro organizzazione finale con la tavola periodica moderna, gli studenti determineranno se sono riusciti a prevedere o meno la scoperta di questi elementi.

Dopo aver completato il loro modello finale, gli studenti hanno fatto un gallery tour per condividere i loro prodotti e i loro ragionamenti. 

Domani mostrerò immagini della progressione storica della tavola periodica, come ad esempio la tavole delle sostanze di Lavoisier…

… e anche modelli alternativi di tavole periodica che enfatizzano proprietà degli elementi che non sono così manifeste nelle tavole periodiche tradizionali, come quella di Paul Giguères a forma di fiore.

Secondo le autrici, mostrare questi modelli “diversi” supporta le strategie organizzative più creative degli studenti che sono diverse dalla tavola periodica moderna che solitamente vediamo.

Per casa ho chiesto di fare una riflessione individuale sul lavoro fatto in classe guidata da alcune domande:

  • In che modo il vostro gruppo ha organizzato gli elementi? Spiega il vostro processo di organizzazione.
  • Durante l’attività il vostro gruppo ha modificato la strategia organizzativa degli elementi? Se sì, spiegare che cosa avete iniziato a fare e cosa avete modificato.
  • Dopo aver fatto il gallery tour e aver sentito le spiegazioni dei vostri compagni, avreste voluto modificare il modo in cui avete organizzato gli elementi? Se sì, spiega come. Se no, spiega perché avete pensato che la strategia del vostro gruppo fosse la “migliore”.
  • Metti a confronto la vostra organizzazione degli elementi con la tavola periodica moderna. Spiega in che modo sono simili e in cosa sono diverse.
  • Secondo te, in che modo questa attività ha imitato ciò che gli scienziati del passato hanno fatto e quello che fanno ancora oggi?

Ho chiesto ai ragazzi di postare su Edmodo le loro riflessioni così oggi pomeriggio ho potuto leggerle e preparare la discussione di domani. Come sempre sorprendenti e in positivo naturalmente!

Ho intenzione di seguire le indicazione delle autrici fino in fondo e somministrare, dopo la discussione in classe, un questionario redatto con google form basato su queste quattro domande:

  1. In che modo pensi che fare questa attività abbia aumentato la tua comprensione del modo in cui gli elementi sono organizzati nella tavola periodica?
  2. In che modo pensi che scoprire la storia della tavola periodica abbia aumentato il tuo interesse verso la tavola periodica?
  3. In che modo pensi che l’aver organizzato gli elementi abbia aumentato la tua comprensione sul modo in cui si costruisce la conoscenza scientifica e come questa cambi nel tempo?
  4. In che modo ritieni che l’aver organizzato gli elementi abbia aumentato la tua comprensione dell’importanza dell’immaginazione e della creatività nella scienza?

Che ne dite? Cosa ne penseranno i ragazzi?

P.S. Se volete proporre anche voi l’attività senza dover preparare da soli le carte, scrivetemi e vi manderò il mio file! :-)

Per sentire direttamente il pensiero delle autrici dell’articolo:


Qualche idea per raccontare la Luna

$
0
0

Settimana pesante, consigli di classe, compiti da correggere… Anche voi immagino, vero? Per “rilassarci” vi propongo qualche video interessante, chissà che con ci venga qualche idea per una nuova attività IBSE.

Il 18 giugno 2009 è stata lanciata la sonda  Lunar Reconnaissance Orbiter (LRO). La sonda sta raccogliendo dati di vario genere allo scopo di esaminare le risorse lunari e identificare possibili siti favorevoli di allunaggio per le future missioni di esplorazione spaziale robotiche o umane.

Grazie ai dati raccolti finora, la NASA ha realizzato video davvero interessanti anche per scopi didattici.

Possiamo cominciare con un “tour” guidato sulla superficie lunare. Sul sito è possibile scaricare anche la trascrizione della narrazione e per una visione offline scaricare anche il video stesso.

È possibile saperne di più anche sulla storia del nostro satellite:

Possiamo comprendere meglio le fasi lunari e le librazioni:

Ma soprattutto possiamo finalmente rispondere alla domanda: com’è fatta la faccia nascosta della Luna?

Ancora una volta, il sito della NASA offre la possibilità di scaricare il video e la trascrizione della narrazione.

Godetevi il viaggio e se per caso vi vengono nuove idee fatemelo sapere! Buon fine settimana :-)

giphy


ENGAGE: Perché gli astronauti in orbita devono allenarsi tutti i giorni?

$
0
0

Nuovo “esperimento” IBSE. La prossima settimana inizio il sistema scheletrico e muscolare in quarta. L’anatomia e la fisiologia non sono facili da affrontare con un approccio di inquiry diretto, almeno non a scuola, ma si può comunque sviluppare alcune delle abilità proprie dell’inquiry anche lavorando, ad esempio, sui modelli. Girando girando in rete sono riuscita a farmi venire qualche idea. Il mio percorso inizia, naturalmente, dalla fase di engage.

Il sistema muscolare-scheletrico permette al corpo umano di muoversi e di esercitare forze nell’ambiente. Mentre sulla Terra questo sistema deve sostenere il peso del corpo e le ossa sono sempre sotto carico a causa della forza di gravità, in assenza di peso tutto questo non succede. Quando gli astronauti sono in orbita il peso che il corpo deve sostenere è quasi uguale a zero, il sistema muscolo-scheletrico non viene quindi caricato e qualunque azione è poco faticosa. La conseguenza della permanenza in condizioni di microgravità (la totale assenza di gravità o gravità zero è una situazione solo teorica) è quindi la perdita di tessuto osseo e muscolare.

Struttura e funzione dell’osso

Il tessuto osseo è un tessuto dinamico che reagisce alla malattia e alle lesioni e si autoripara. L’osso ha sia una componente organica che inorganica. La componente organica è composta principalmente da collagene e di fibre elastiche. L’idrossiapatite è la componente inorganica ed è un minerale ricco di calcio che indurisce e rafforza il collagene. Insieme, le due componenti dell’osso creano una struttura scheletrica robusta ma flessibile.

Il corpo distrugge continuamente l’osso vecchio e lo sostituisce con tessuto nuovo. L’osso è formato da tre tipi di cellule: osteoblasti, osteociti e osteoclasti. Gli osteoblasti sono le cellule che depongono nuova matrice minerale sulla superficie dell’osso. Gli osteociti hanno un ruolo di mantenimento mentre gli osteoclasti, cellule con più nuclei, distruggono il tessuto osseo vecchio e sono in parte responsabili anche del rilascio del calcio nel sangue. In un individuo sano, sulla Terra, l’osso si forma alla stessa velocità con cui viene demolito, così non c’è mai una perdita complessiva di massa ossea. Questo processo si modifica mentre una persona invecchia o si trova in condizioni di microgravità per un periodo di tempo prolungato.

L’osso, ad eccezione delle zone dove collegate a legamenti, tendini o cartilagine, delle superfici articolari e dei fori nutritizi, è rivestito da una membrana di tessuto connettivo chiamata periostio. Le ossa lunghe, come ad esempio l’omero o il femore, sono costituite da una porzione centrale chiamata diafisi e due estremità ingrossate dette epifisi.

La parte più esterna dell’osso è costituita da osso compatto, chiamato così perché di consistenza densa. Nella diafisi l’osso compatto circonda una cavità attraversata da midollo osseo giallo, un tessuto costituito principalmente da grasso trasportato dal sangue e immagazzinato all’interno dell’osso.

La parte interna delle due epifisi, invece, è costituita da osso spugnoso, chiamato così perché di consistenza porosa, simile a quella di una spugna.

Le cavità dell’osso spugnoso contengono il midollo osseo rosso, un tessuto specializzato nella produzione delle cellule del sangue. Nei punti di contatto con altre ossa, le epifisi sono protette da cuscinetti di cartilagine.

L’osso è attraversato da vasi sanguigni (arterie e vene) che trasportano sostanze nutritive, ossigeno e ormoni regolatori e allo stesso tempo rimuovono i rifiuti.

I nervi corrono parallelamente ai vasi sanguigni e contribuiscono a regolare gli scambi di sostanze tra osso e sangue.

Sulla Terra, le ossa svolgono quattro funzioni principali:
– supporto meccanico:
 lo scheletro supporta i tessuti molli e il peso del corpo. Molte ossa possono anche agire da leve per i muscoli permettendo il movimento;

riserva di nutrienti essenziali: le ossa immagazzinano la maggior parte del calcio che ricevono dalla dieta. Il calcio è accumulato sotto forma di idrossiapatite. Il corpo mantiene costante la concentrazione del calcio assorbendolo dall’osso e rilasciandolo nel sangue. Questo livello costante di calcio nel sangue permette un appropriato funzionamento nervoso, muscolare ed endocrino, come anche altre attività cellulari (per esempio la coagulazione del sangue). Dal sangue, il calcio viene portato ai diversi organi e sistemi del corpo. Quando il corpo assorbe troppo calcio dalle ossa, lo scheletro può diventare sottile e debole. L’osso è anche una buona fonte di fosfato, idrogeno, potassio e magnesio. Come il calcio questi minerali vengono usati da vari sistemi del corpo per molti scopi;

produzione di sangue: oltre ai minerali essenziali, l’osso è anche il sito di immagazzinamento del midollo. Il midollo è importante per la formazione e lo sviluppo di globuli rossi, globuli bianchi e piastrine;

protezione: lo scheletro custodisce e protegge il cervello, la colonna vertebrale e i nervi. Molte ossa, specialmente le costole, proteggono gli organi interni.

Perdita ossea

Il rimodellamento della struttura ossea e/o la perdita di tessuto osseo durante un volo spaziale si verifica al ritmo dell’1-2% al mese e dopo sei mesi nello spazio i sintomi dell’osteoporosi degli astronauti sono simili a quelli riscontrati nelle donne anziane sulla Terra. Nel tempo, infatti, il calcio che normalmente è accumulato nelle ossa, viene mobilizzato e rilasciato nel sangue. La quantità di calcio trovato nel sangue degli astronauti durante le missioni spaziali è molto maggiore di quella sulla Terra e riflette la diminuzione della densità ossea. Questa diminuzione di densità, nota come osteoporosi da mancanza d’uso (simile a quella osservabile sulla Terra in caso di prolungata immobilità) indebolisce le ossa e le rende meno in grado di sostenere il peso del corpo e il movimento una volta tornati a Terra. In condizioni di microgravità le ossa portanti, come colonna vertebrale, bacino e arti inferiori, sono quelle maggiormente colpite e dopo una missione di sei mesi è stata riportata una perdita di massa ossea fino al 20%. Gli astronauti che ritornano da una missione nello spazio di lunga durata sono, quindi, a rischio di fratture e di conseguenza sono sottoposti ad attenzioni e cure specifiche. Gli astronauti ripristinano la maggior parte della loro massa ossea nei mesi seguenti il rientro dallo spazio, anche se non recuperano del tutto.

Il meccanismo esatto che causa la perdita di calcio in microgravità è ancora sconosciuto. Molti scienziati ritengono che la microgravità determini un aumento della velocità di distruzione del tessuto osseo rispetto a quella con cui l’osso viene invece deposto. Tuttavia, ancora non è noto cosa inneschi questo cambiamento di velocità. La ricerca sta lavorando su più fronti (livelli ormonali, dieta, esercizio fisico) per determinare la causa esatta dell’osteoporosi durante i voli spaziali e poterla così controllare o prevenire. L’osteoporosi degli astronauti, infatti, rappresenta uno dei maggiori ostacoli al progresso dei programmi spaziali, poiché sarebbe molto pericoloso esporli a permanenze molto lunghe in microgravità. Per andare e tornare da Marte, per esempio, attualmente ci vorrebbero circa tre anni e questo è un tempo sufficiente per causare gravi danni all’apparato osteo-articolare degli astronauti.

Perdita muscolare

L’atrofia muscolare deriva dalla mancanza di attività impegnative dal punto di vista fisico (camminare, salire le scale, sollevare oggetti…) e dalla mancanza di carico dei muscoli posturali. Nelle missioni brevi è stata osservata una perdita muscolare del 10-20 % e, se non vengono prese contromisure, questo potrebbe arrivare fino al 50% nelle missioni di lunga durata. Ciò potrebbe compromettere l’abilità degli astronauti di svolgere specifiche attività che richiedono sforzo fisico durante la missione (per esempio le attività extraveicolari) e dopo l’atterraggio (per esempio l’uscita in condizioni di emergenza). Tutto ciò porta anche fastidi: gli astronauti si sono lamentati spesso di dolore alla parte bassa della schiena, che sembra essere conseguenza dell’atrofia dei muscoli posturali.

Ricerca e sviluppo

La ricerca non si focalizza solo sulla comprensione del fenomeno e sullo studio delle modificazioni nella struttura ossea (EDOS), ma anche su soluzioni preventive e sulle procedure riabilitative. Gli astronauti, infatti, passano molto tempo esercitandosi per mantenere la salute di ossa e muscoli.  Vengono continuamente sviluppati nuovi metodi e sono stati realizzati specifici dispositivi per l’allenamento (FWED-PEMS) e il monitoraggio (MARES). Tutto ciò può avere un ritorno molto positivo sulle misure di prevenzione e trattamento di indicazioni simili sulla Terra.

Per fissare le idee:

Fonti consultate:



EXPLORE: cosa accade quando viene applicata una forza improvvisa su un osso indebolito progressivamente?

$
0
0

Le attività sul sistema scheletrico proseguono con la fase di Explore. Come vi ho già raccontato altre volte, questa fase fornisce agli studenti la possibilità di familiarizzare con il modello oggetto di studio attraverso esperienze, spesso concrete, in cui possono utilizzare le loro preconoscenze per generare nuove idee, esplorare domande e progettare e/o condurre investigazioni.

L’investigazione di oggi è un adattamento  della attività “Bag of bones” della NASA.

Gli obiettivi di questa investigazione sono il saper identificare gli effetti della diminuzione della massa ossea e farsi un’idea del perché avere ossa in buona salute è importante sia nello spazio che sulla Terra.

Per l’investigazione servono: cereali tipo Palline Coco Pops, circa 128 grammi per gruppo (una confezione da 375 grammi è sufficiente per 3 gruppi);  5 bustine di plastica piccole tipo Ziplock per gruppo; pennarelli per etichettare le buste; un libro pesante per gruppo (es. dizionario).

20111122-180735-cereal-kix-pile

Per svolgere l’attività servono 60 minuti.

Prima di cominciare

State per investigare gli effetti della perdita di massa ossea attraverso un modello costruito con palline di cereali inserite all’interno di buste di plastica trasparente. Nel modello che costruirete la bustina di plastica trasparente rappresenta l’osso e le palline di cereali al suo interno rappresentano il calcio e le cellule che rendono l’osso resistente e robusto. Per simulare la perdita di massa ossea rimuoverete alcuni cereali dalle buste di plastica e vedrete cosa succede quando su questi modelli di ossa viene applicata una forza improvvisa.

Dividere la classe in gruppi di 4-5 ragazzi e distribuire cereali, bustine di plastica e scheda di lavoro. Far osservare le palline di cereali e far notare che alcune hanno dei buchi naturali, delle irregolarità, per cui è importante esaminarli bene prima di testarne la resistenza in modo da avere un punto di riferimento quando dovranno valutare gli effetti della forza che verrà esercitata. 

Al lavoro!

  • Usando il pennarello etichettate le bustine con i numeri 1-5.
  • La Busta 1 rappresenta un osso in salute sulla Terra. 
  • Riempite la Busta 1 con i cereali in modo che sia molto piena e che resti pochissima aria all’interno ma assicurandosi che possa chiudersi bene. Contate quante palline di cereali avete inserito nella busta, annotate il numero nella Tabella 1 e consideratelo come “valore normale di densità ossea”. Chiudete bene la bustina in modo che non si apra.
  • Per rappresentare un osso che ha perso massa come conseguenza di un volo spaziale o dell’invecchiamento, preparerete altre 4 “ossa” riempiendo altrettante buste con un numero  di palline inferiore rispetto a quello della Busta 1 secondo il seguente schema:

Busta 1: 0% di perdita ossea (osso normale)

Busta 2: 10% di perdita ossea (rimane il 90% della massa originale)

Busta 3: 20% di perdita ossea (rimane l’80% della massa originale)

Busta 4: 35% di perdita ossea (rimane il 65% della massa originale)

Busta 5: perdita ossea del 50% (rimane il 50% della massa originale)

  • Per calcolare la quantità di cereali da inserire nella Busta 2 dovrete calcolare il 90% del numero iniziale di palline calcolandolo in questo modo:

numero di palline nella busta 1 x 0.9 = quantità di cereali nella Busta 2

  • Riempite la Busta 2 con questa quantità. Questa busta rappresenterà un osso con una perdita di massa del 10%. Registrate la quantità di palline calcolata nella Tabella 1.

Tabella 1

  • Usando lo stesso sistema calcolate l’80%, il 65% e il 50% della densità normale dell’osso e riempite le Buste 34, e 5 con queste quantità di palline. Registrate le quantità calcolate nella Tabella 1.
  • Nel costruire ciascun osso assicuratevi di far uscire quanta più aria possibile dalla busta e di sigillarla bene. In caso contrario l’aria agirà da ammortizzatore e il test non funzionerà come dovrebbe.
  • Ora siete pronti per testare gli effetti di una forza improvvisa esercitata su un “osso normale” e su “ossa indebolite”.
  • Prima di cominciare riflettete

Cosa pensate possa accadere ad un osso, che in questo caso è rappresentato dal sacchetto con i cereali, quando viene applicata una forza improvvisa?

Secondo voi, il risultato cambierebbe se l’osso si indebolisse progressivamente?

  • Scrivete le vostre previsioni.
  • Ponete la Busta 1 su una superficie dura. Sollevate il libro pesante più in alto possibile e lasciatelo cadere sulla busta. Ricordate di usare la stessa quantità di forza anche sugli altri sacchetti. Il libro pesante rappresenta una forza che agisce improvvisamente come accade durante un salto o una caduta.  Capovolgete la busta e ripetete la procedura stando attenti a sollevare il libro alla stessa altezza di prima in modo che la forza dell’impatto rimanga costante.
  • Mantenendo sempre costante l’altezza, ripetete la procedura anche con le buste 2, 3, 4 e 5. 

Cosa è accaduto alle ossa?

  • Aprite le buste, contate il numero di palline di cereali rimaste intere in ciascuna e annotatelo nella Tabella 2. Ricordate che le palline di cereali che hanno sopra della polvere di cereali o hanno solo piccole rotture dovrebbero essere contate come integre.

 

  • Determinare la percentuale di massa ossea indebolita per ciascuna busta e annotate i dati in Tabella 2. Per calcolare questa percentuale sottraete a 100 la percentuale calcolata di osso integro:

100 – % di osso integro = % di osso indebolito

Tabella 2

  • Costruite un grafico con i dati ottenuti nell’investigazione che mostri la relazione tra la densità ossea e l’entità dei danni.

Analizzare i risultati

  1. Sulla base delle evidenze che avete raccolto, cosa accade quando la densità ossea (quantità di cereali) diminuisce?
  2. Ora immaginate che le vostre buste siano un osso reale. Se un osso vero fosse costruito come il modello usato cosa accadrebbe se una forza improvvisa (come ad esempio quella dovuta a un salto o una caduta) fosse applicata all’osso?
  3. I dati raccolti supportano la vostra previsione iniziale? Perché o perché no?
  4. Secondo voi cosa si potrebbe fare per prevenire la perdita di massa ossea? 

3

La prossima volta vi racconterò come ho realizzato la fase di EXPLAIN e di ELABORATE utilizzando il metodo Pogil.


L’omeostasi del calcio (EXPLORE/EXPLAIN)

$
0
0

Le attività sul sistema scheletrico continuano con una attività di EXPORE/EXPLAIN adattata dal metodo POGIL. In un post precedente vi ho già raccontato che lavoro spesso con questo metodo, soprattutto quando l’esplorazione diretta per forza di cose non è possibile.

L’attività parte con uno scenario.

Paola è una studentessa universitaria che nel tempo libero gioca nel ruolo schiacciatrice nella squadra di pallavolo della sua università. Durante una partita, Paola cade e si fa male. Prova a rialzarsi ma il dolore è troppo forte e non riesce a reggersi in piedi per cui viene trasportata al pronto soccorso dove le viene riscontrata una frattura all’anca. Poiché Paola è giovane, il medico è preoccupato perché teme che questa frattura non sia dovuta alla caduta ma ad altre cause nascoste. Ordina, quindi, altri esami tra cui la densitometria ossea (MOC) e alcuni esami del sangue.

seriec_al

1. Risultati degli esami

La MOC serve a misurare la densità minerale ossea, ossia la quantità di calcio e altri minerali (fosforo, fluoro, magnesio) che conferiscono all’osso durezza, rigidità e resistenza. La densità minerale ossea (BMD) viene misurata con la tecnica DXA (Dual X-ray Absorptiometry), usando cioè un tipo speciale di raggi-X a doppia energia (dual-energy X-ray). I risultati di una persona vengono analizzati per produrre quello che viene chiamato un T-score, un indice statistico che permette di valutare di quanto il valore in esame si differenzia da quello del campione di riferimento costituito da soggetti sani dello stesso sesso ed etnia, di età pari a 25-30 anni, esaminati, quindi, nel momento in cui si raggiunge il picco di massa ossea. In termini più precisi, il T-score è la differenza, espressa in numero di “deviazioni standard”, fra il valore individuale osservato e il valore medio della popolazione sana di riferimento. Valori di T-score compresi fra +1 e -1 indicano una mineralizzazione ossea nella norma. Secondo i criteri dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (originariamente riferiti alle donne in menopausa, ma oggi utilizzati per gli adulti di ambo i sessi), si parla di osteopenia quando il valore del T-score è inferiore a -1, e di osteoporosi quando il T-score è inferiore a -2.5. Valori negativi di T-score indicano, quindi, che la densità ossea di un determinato individuo si posiziona al di sotto la media. Al ridursi del T-score il rischio di fratture viene ad aumentare.

t-score_image

 Il test sulla densità minerale ossea di Paola ha dato un T-score di -3,6.

1

Domande:

1. In gruppo, analizzate i T-scores. Sulla base di quanto avete letto, un valore negativo di T-score può essere considerato normale? Perché o perché no?

2. Il test sulla densità minerale ossea di Paola ha dato un T-score di -3,6. Per il medico cosa indica questo valore?

3. Analizzate i valori degli esami del sangue di Paola e indicate quali sono:

  1. valori normali:
  2. sopra i valori normali:
  3. sotto i valori normali:

4. Secondo voi quale può essere la relazione tra i livelli di ormone paratiroideo e il livello di calcio nel sangue?

2. Istologia del tessuto osseo

Il medico diagnostica a Paola l’osteoporosi

tavola1_ossa1

5. Descrivete almeno due differenze tra la foto dell’osso spugnoso tipico (a sinistra nella foto) e le ossa di Paola (a destra nella foto).

6. Sulla base delle informazioni che avete raccolto finora scrivete una vostra definizione condivisa di osteoporosi.

7. Sulla base delle informazioni a vostra disposizione, secondo voi quale delle seguenti spiegazioni è la più corretta? Perché?

  1. La caduta di Paola ha provocato la frattura dell’anca.
  2. L’anca di Paola si è rotta e questo ha determinato la caduta.

3. La regolazione dei livelli di ormoni e calcio

Gli esami di Paola indicano una condizione chiamata iperparatiroidismo, che significa che le sue paratiroidi stanno producendo un eccesso di ormone paratiroideo (PTH). Il medico ha spiegato a Paola in che modo questa condizione è collegata alla frattura dell’anca e all’osteoporosi.

“Il calcio è necessario per svolgere molte funzioni importanti per il nostro organismo. È necessario per indurire le ossa che, a loro volta, costituiscono un magazzino di riserva del calcio per la trasmissione dei segnali nervosi, per il corretto funzionamento delle cellule muscolari e per la funzionalità cardiaca. L’ormone principale utilizzato per la regolazione dei livelli di calcio che circola nel nostro sangue è l’ormone paratiroideo, chiamato anche PTH. Nel collo, aderenti alla superficie posteriore della ghiandola tiroide, c’è un piccolo gruppo di ghiandole endocrine, chiamate paratiroidi. Le paratiroidi sono quattro, due superiori, situate dietro alla tiroide, e due inferiori. Le ghiandole paratiroidi rilevano i livelli di calcio nel sangue (la calcemia) e regolano la velocità di secrezione del PTH da parte delle cellule secretrici, dette cellule principali. Il PTH a sua volta aumenta il numero e l’attività degli osteoclasti, un tipo di cellula dell’osso che si occupa del riassorbimento osseo (processo normale dello sviluppo, della crescita, del mantenimento e della riparazione dell’osso), che degradano la matrice ossea extracellulare rilasciando calcio nel sangue.”

paratiroidi_gallery

8. In quali condizioni viene rilasciato l’ormone paratiroideo?

9. Utilizzando la descrizione del medico, completate la seguente tabella. 

1

10. Create un diagramma a feedback negativo che spieghi ciò che il dottore ha detto sul calcio nel sangue e nelle ossa, sapendo che:

– il recettore o sensore è la struttura del corpo che rileva i cambiamenti che avvengono in una condizione controllata e manda l’informazione, detta input, a un centro di controllo in forma di impulsi nervosi o segnali chimici;

– il centro di controllo, per esempio il cervello, è quello che stabilisce l’ambito di valori entro i quali dovrebbe essere mantenuta la condizione controllata, valuta l’input e invia comandi in uscita, detti output, in forma di impulsi nervosi o segnali chimici;

– l’effettore è la struttura del corpo che riceve l’output dal centro di controllo e produce una risposta; quasi tutti gli organi e i tessuti del corpo possono comportarsi da effettori;

– la risposta è quella che fa cambiare la condizione controllata.

11. I test ematici di Paola indicano una condizione chiamata iperparatiroidismo. Spiegate in che modo questa condizione contribuisce all’osteoporosi.

12. Senza usare altre fonti di informazione, create un elenco di fattori, escluso il paratiroidismo, che potrebbero portare a osteoporosi. Stabilite quali fattori sono sotto il controllo di una persona e quali no.

13. Ora rivedete le risposte inserite nella tabella consultando siti internet affidabili. Indicate i siti consultati. Evidenziate i fattori della vostra lista confermati dalla consultazione web e aggiungete eventuali altri fattori trovati.

14. Sempre affidandovi a siti internet affidabili spiegate perché solitamente l’osteoporosi colpisce prevalentemente persone di mezza età ed anziane e per lo più donne.

15. Il medico ha richiesto anche la valutazione della calcitonina nel sangue. Documentatevi e spiegate cos’è la calcitonina, dove viene prodotta e qual è il suo ruolo.

omeostasi-della-calcemia

Che ne dite? Volete provare questa attività con i vostri studenti? Scrivetemi e vi invierò le schede! 


Esplorare la contrazione muscolare

$
0
0

Terza e ultima “puntata” sul sistema scheletrico e muscolare.  Ancora una volta ho approfittato del metodo Pogil per esplorare l’anatomia di un sarcomero e fare anche un accenno alla fisiologia della contrazione che poi ho spiegato in classe in modo più tradizionale. Come vi ho già detto altre volte credo che questo sistema sia davvero efficace, soprattutto quando l’esplorazione diretta in laboratorio è difficile o, come in questo caso, impossibile. Questo metodo, infatti, costringe gli studenti a “vedere” cose che la semplice osservazione di una figura, anche se accompagnata dalla spiegazione dell’insegnante, non riesce a mostrare.

L’attività in questione è tradotta e adattata dal libro “Fifteen POGIL Activities for Introductory Anatomy and Physiology Courses” Di Murray Jensen, Anne Loyle e Allison Mattheis, che ho acquistato tempo fa direttamente dal sito del POGIL. Come per tutte le attività inquiry-based i ragazzi hanno lavorato utilizzando solo le loro preconoscenze e il ragionamento. Non hanno ricevuto alcuna spiegazione precedente nè potevano utilizzare il libro di testo o internet. L’attività è stata fatta in classe per garantire queste condizioni.

ANATOMIA DI UN SARCOMERO

Al microscopio, un muscolo scheletrico appare formato da migliaia di fibre muscolari disposte parallelamente tra loro. Una singola fibra muscolare è una cellula allungata, dotata di molti nuclei. Ciascuna fibra muscolare contiene al suo interno un fascio di miofibrille (myofibrils) formate da varie unità funzionali chiamate sarcomeri (sarcomere), costituiti da proteine contrattili, tra cui actina e miosina. Ciascun sarcomero è lungo approssimativamente 2m.

chapte19d

I ragazzi hanno analizzato questa immagine e risposto ad alcune domande:

1

  1. Nel disegno, indica lo spesso filamento orizzontale con il nome “filamento spesso”.
  2. Indica il filamento orizzontale più sottile con il nome “filamento sottile”.
  3. Quanti sarcomeri sono rappresentati in questo modello?
  4. Basandoti sulle tue osservazioni sulla posizione dei filamenti spessi e sottili, descrivi ciascuno dei seguenti:
  • banda A
  • banda I
  • zona H
  • linea Z
  • Linea M
  1. Descrivi in che cosa differiscono la zona H e la banda A.
  1. Secondo te, quanti sarcomeri ci sono in una cellula muscolare del tuo quadricipite?
  1. In un muscolo dell’occhio pensi che ce ne siano di più o di meno?

 

CONFRONTO TRA SARCOMERI RILASSATI E CONTRATTI

1

  1. Nelle Figure 1 e 2, indica le bande A, le bande I e le zone H. Misura e annota in tabella la lunghezza (in mm) di queste strutture e lo spessore dei filamenti spessi e dei filamenti sottili:

1

  1. In gruppo discutete i dati inseriti nella tabella della domanda 8 e descrivete cosa accade ai filamenti spessi e sottili quando il muscolo si contrae.
  2. In gruppo, osservate le Figure 1 e 2 del Modello 2. Secondo voi perchè c’è un limite nella quantità di accorciamento che può verificarsi in un sarcomero durante la contrazione muscolare?

 

SEZIONE TRASVERSALE DI UN SARCOMERO

I disegni della figura sono sezioni trasversali di un sarcomero che mostrano i filamenti in posizioni diverse al suo interno.

1.png

Figura A                                       Figura B                                      Figura C

  1. Indica i filamenti spessi e sottili nelle Figure A, B e C.

 

  1. Nel diagramma sottoriportato ci sono tre sarcomeri.

1a. Nel primo sarcomero sulla sinistra, identifica la posizione della sezione trasversale della Figura A del Modello 3, disegna una linea verticale e indicala con una A.

b. Nel sarcomero centrale, identifica la posizione della sezione trasversale indicata dalla Figura B del Modello 3, disegna una linea verticale e indicala con una B.

c. Nel terzo sarcomero, a destra, identifica la posizione della sezione trasversale indicata dalla Figura C del Modello 3, disegna una linea verticale e indicala con una C.

  1. Quale delle figure (A, B o C) rappresenta una sezione trasversale della zona H?
  1. Quale delle figure (A, B o C) rappresenta una sezione trasversale della banda I?
  1. Quale delle figure (A, B o C) rappresenta una sezione trasversale della banda A?
  1. Nella figura sottoriportata, ombreggia con la matita l’area della banda A e identifica la posizione della banda I.

1

  1. Quando si osserva al microscopio un muscolo scheletrico, si possono vedere facilmente le striature chiare e scure della fibra muscolare. Sulla base delle ombreggiature nella figura soprariportata e in quella sotto, ipotizza da cosa sono formate le bande scure e chiare nella fibra muscolare osservata al microscopio.

muscul10

  1. Nella figura sopra indica la banda A, la banda I, la linea Z e un sarcomero.
  2.  Per spiegare la fisiologia della contrazione muscolare viene utilizzata la teoria dello scorrimento dei filamenti. Sulla base di quanto avete imparato in questa attività scrivete una descrizione di ciò che afferma la teoria dello scorrimento dei filamenti relativamente ai filamenti spessi e sottili.
  1. Secondo voi, come fanno i muscoli ad aumentare dimensioni?

 

A CASA

Ho dato da guardare il video di Jeffrey Siegel “What makes muscles grow? sul canale TED-ED e in classe, la lezione successiva, abbiamo messo a confronto le risposte date in classe alla domanda n.20 con quanto avevano appreso nel video.

Quindi, ho approfondito la spiegazione della fisiologia della contrazione muscolare. Nell’attività originale non è presente la versione per il docente con le risposte alla domande per cui se siete interessati a riproporre questa attività con le vostre classi scrivetemi e vi invierò la scheda. :-)

LINK UTILI per animazioni e video:


Andare al cuore del problema

$
0
0

Ricordate la “lezione fatta col cuore”? Per carattere non sono mai soddisfatta al cento per cento di ciò che faccio e quando riprendo in mano le “idee” dell’anno precedente la voglia di cambiare qualcosa è sempre troppo forte. In fondo tutto è perfettibile no?

Devo ammetterlo… non ho fatto solo qualche “piccola” modifica qua e là, ma ho inserito questa attività in un impianto del tutto nuovo e, lo confesso, ci ho lavorato davvero molto. Il mio più grande difetto (o forse uno tra i tanti…) è che lavoro a cose nuove con il treno già in corsa, tipo ci lavoro oggi ma devo farlo tra tre giorni!!!

A volte ci riesco senza troppi sforzi, altre volte, come in questo caso rimango letteralmente travolta dal mio stesso entusiasmo, mi insulto un po’ da sola per essermi cacciata in un nuovo guaio, ma poi non mollo perché so che come sempre ne varrà la pena. Okay, basta chiacchiere e veniamo al sodo.

Quest’anno sto cercando di trattare l’anatomia e la fisiologia in un modo più concreto e significativo. Vi ho già parlato altre volte del National Center For Case Study Teaching in Science (NCCSTS), vero? Qui potete trovare una miriade di interessanti casi di studio che potete usare tal quali (traducendoli in italiano o usandoli direttamente in inglese con i ragazzi più grandi) o semplificarli un po’. La cosa importante è con questo tipo di attività gli studenti possono esplorare fenomeni biologici, e non, attraverso casi di studio reali, che li incuriosiscono e coinvolgono anche a livello emozionale.

Curiosando tra le mille possibilità offerte ho trovato un caso non troppo difficile sull’apparato cardiocircolatorio e mi sono lanciata nell’impresa che voglio raccontarvi oggi.

Il caso di studio da cui sono partita, modificandolo un po’, è “The Heart of the Problem: From Heart Attack to Kidney Failure” di Kristine A. Garner e Brandy C. Ree del Department of Biological Sciences University of Arkansas – Fort Smith.

La didattica non trasmissima richiede molto più tempo del normale per cui ho adottato una metodologia flipped. Ho, quindi, realizzato un video introduttivo sulla fisiologia del cuore che i ragazzi hanno “studiato” il giorno prima dell’attività, accompagnandolo con la lettura autonoma di alcune pagine del libro di testo che trattavano gli stessi argomenti del video.

Il giorno dopo, in classe, ho iniziato distribuendo una scheda in cui viene descritto il seguente scenario

Parte I: emergenza

La Sig.ra Rossi entra in casa dalla porta d’ingresso dopo aver fatto la spesa e trova il marito riverso sul pavimento che respira a fatica e si stringe il petto. La moglie chiama subito il 118 e in pochi minuti il signor Rossi viene ricoverato in ospedale con dolori al petto e dispnea (sensazione di mancanza d’aria). Al momento del ricovero, i segni vitali del signor Rossi sono i seguenti:

Valori del Sig. Rossi Valori normali
Pressione sanguigna sistolica

(mm Hg)

90 120
Pressione sanguigna diastolica (mm Hg) 52 80
Temperatura corporea 37 36,5-37,2
Frequenza cardiaca

(battiti per minuto)

120, irregolare 60-80
Frequenza respiratoria

(respiri per minuto)

33, dispnoico (sensazione di mancanza d’aria) Da 12 a 20
Saturazione di ossigeno 89% 95-100%

Chiedo quindi ai ragazzi di lavorare in gruppo (2-4 studenti) per analizzare i dati a loro disposizione e cercare di capire quali valori sono nella norma e quali invece no. Chiedo anche di ipotizzare quali altri dati o esami potrebbero essere utili per capire cosa può essere successo ai signor Rossi. Discutiamo le risposte e passiamo alla seconda parte.

 

La signora Rossi è preoccupata perché il marito, che ha 72 anni, ha già una storia di problemi cardiaci. In ospedale, il paziente viene visitato e vengono eseguiti elettrocardiogramma ed ecocardiogramma. Quando finalmente il medico va a parlare con la signora Rossi, le notizie non sono buone: il marito ha avuto un attacco di cuore che gli ha causato una insufficienza valvolare. In pratica, un muscolo papillare che controlla una valvola del suo cuore è stato gravemente danneggiato e non funziona più.

In gruppo, i ragazzi, sulla base di quanto studiato autonomamente attraverso il video e il libro di testo, discutono e si confrontano rispondendo a queste domande:

1. Qual è lo scopo della circolazione sanguigna?

2. Descrivete il percorso del sangue attraverso il cuore dal suo ingresso nell’atrio destro del cuore all’aorta, specificando anche il suo passaggio attraverso tutte le camere e le valvole cardiache.

3. Qual è la funzione delle valvole del cuore?

4. Qual è la funzione dei muscoli papillari?

5. Quale valvola viene compromessa da un danno al muscolo papillare del ventricolo sinistro?

Gli ultimi dieci minuti discutiamo le risposte date dai vari gruppi e noto con piacere che per loro, fin qui, è tutto molto chiaro.

La lezione seguente, andiamo in laboratorio. Sei cuori di maiale ci aspettano per la dissezione. Dopo i primi momenti di “paura” la curiosità vince e i ragazzi lavorano entusiasti. Fotografano e filmano tutto perché la relazione dovrà essere in formato multimediale.

Clicca per vedere lo slideshow.

 

A casa, gli studenti devono guardare un secondo video sulla fisiologia del cuore che servirà per affrontare le attività previste il giorno seguente.

La mattina dopo, in classe, proseguiamo con la lettura dello scenario.

Parte III – Coinvolgimento cardiovascolare

Il signor Rossi versa in gravi condizioni. Il suo muscolo papillare posteromediale è stato danneggiato dall’infarto miocardico e non è più in grado di mantenere chiusa la valvola. L’infarto gli ha, quindi, causato il prolasso della valvola mitrale. A causa della diminuzione della gittata cardiaca, il paziente lotta per la vita. Il mantenimento della gittata cardiaca è, infatti, necessario perché ci sia un adeguato flusso di sangue attraverso il corpo. Il medico parla con la moglie del signor Rossi e le spiega che suo marito ha avuto un infarto nella parte sinistra del cuore e che la sua pressione sanguigna sta lentamente ma costantemente diminuendo.

A questo punto i ragazzi, sempre lavorando in gruppo, devono affrontare i seguenti quesiti:

1. Cosa succede al flusso sanguigno a causa del prolasso della valvola mitralica?

2. Il prolasso della valvola mitralica aumenta, diminuisce o non modifica la gittata sistolica (la quantità di sangue che esce dal ventricolo ad ogni contrazione ventricolare)?

3. In che modo il prolasso mitralico diminuisce la gittata cardiaca (la quantità di sangue che esce dal cuore in un minuto)?

4. Spiega in che modo la gittata cardiaca determina la pressione del sangue.

5. Perché il cuore del Sig. Rossi batte più velocemente del normale?

Come il giorno precedente discutiamo insieme le risposte date alle domande.

Prima di affrontare la quarta parte dello scenario con un ppt spiego in classe i seguenti argomenti: struttura e funzione dei vasi sanguigni, fattori da cui dipende la pressione sanguigna, rischi legati all’ipertensione, controllo della distribuzione del sangue da parte del tessuto muscolare liscio, filtrazione e riassorbimento a livello dei capillari.  Siamo così pronti per proseguire con lo scenario.

Parte IV – Coinvolgimento polmonare

Il signor Rossi continua a peggiorare respirando sempre più a fatica. Il medico gli ausculta il torace e sente che il respiro è rapido e produce rantoli crepitanti. La grave insufficienza mitralica causata dall’infarto comporta un rigurgito di sangue dal ventricolo sinistro all’atrio e questo sta causando anche problemi respiratori. Ancora una volta, in gruppo, i ragazzi discutono e rispondono alle seguenti domande:

1. La parte sinistra del cuore da quale parte del corpo riceve sangue?

2. Se la valvola bicuspide (mitrale) non si chiude bene, la circolazione polmonare aumenta, diminuisce o rimane uguale?

3. La pressione del sangue a livello polmonare aumenta o diminuisce a seguito dell’insufficienza cardiaca sinistra? Perché?

4. Il cambiamento della pressione a livello polmonare causato dall’insufficienza cardiaca sinistra aumenta o diminuisce la filtrazione nei polmoni? Perché?

5. Perché il cambiamento della pressione sanguigna a livello polmonare ha prodotto i rantoli crepitanti?

6. Perché il signor Rossi respira più velocemente?

Discutiamo le risposte e terminiamo l’attività con l’ultima parte dello scenario.

Parte V- coinvolgimento renale e risoluzione

Il signor Rossi è in edema polmonare e viene subito iniziato il trattamento farmacologico per ridurlo. Il paziente però continua inesorabilmente a peggiorare. Controllando la sacca del catetere vescicale, il medico nota infatti che nonostante la somministrazione di diuretico per il trattamento dell’edema polmonare il paziente non ha quasi urinato. Chiama, quindi, la moglie e le dice che le condizioni del marito sono gravissime poiché è insorta anche un’ insufficienza renale. La moglie è disperata e il medico le spiega che anche i reni per funzionare dipendono dalla pressione sanguigna e che l’infarto ha causato anche l’insufficienza renale. Il paziente viene, quindi, inviato immediatamente in cardiochirurgia per un intervento di sostituzione valvolare. La signora Rossi angosciata aspetta per ore in sala d’attesa finché vede uscire il chirurgo dalla sala operatoria con il sorriso sulle labbra. “Suo marito è in terapia intensiva, l’intervento è riuscito. Presto starà bene!”. La signora sollevata scoppia in singhiozzi e abbraccia il medico.

Prima di chiudere chiedo ai ragazzi come pensano che cambieranno le funzioni vitali e le funzioni respiratorie e renali del signor Rossi dopo l’intervento di sostituzione valvolare.

Che ne pensate? I ragazzi, come sempre in questi casi, sono stati bravissimi.

Voi come trattate questo argomento? Avete altre idee per trattare l’anatomia e la fisiologia in modo non trasmissivo? Se vi va raccontatelo nei commenti!

Alla prossima ☺


Do you speak scientific English?

$
0
0

Il mio rapporto d’amore con l’inglese scientifico (e non solo) è cominciato molto tempo fa. Credo persino di ricordare il momento esatto: agosto 1991. Insegnavo già da qualche anno e per la prima (ed unica) volta sono andata negli Stati Uniti, per essere più precisi a Boston. La Boston del MIT e di Harvard! Un sogno ad occhi aperti.

Inglese ne masticavo poco e giravo sempre con il dizionario in mano. Quel viaggio è stato fantastico ma l’emozione più grande per me è stata quando sono entrata in una libreria universitaria vicino ad Harvard. Avete presente quando portate un bambino in un negozio di giocattoli? UGUALE!

Intorno a me ogni ben di Dio in fatto di libri di biologia, chimica e quant’altro. Proprio lì ho comprato l’edizione più “recente” del Curtis su cui avevo studiato all’università, uno dei libri più belli e ben fatti su cui abbia mai studiato. Ma non solo il Curtis… Mio marito ed io abbiamo comprato così tanti libri “imperdibili” che siamo stati costretti ad acquistare anche una nuova valigia per poterli portare a casa. Non erano certo i tempi di Amazon e libri del genere erano merce preziosissima, almeno per noi.

Perchè vi racconto questo?

Una volta a casa mi sono dovuta scontrare con la realtà, ossia la mia scarsa conoscenza del lessico specifico e della lingua in generale. Ho passato ore a costruirmi una sorta di glossario del lessico specifico della biologia ma più leggevo in inglese più mi rendevo conto che questo “sforzo” mi portava a capire, ma soprattutto a notare, dettagli che in una lettura in italiano mi sarebbero sfuggiti.

Leggere della cellula in inglese, ad esempio, mi costringeva ad una maggiore concentrazione e mi sono resa conto che mi portava ad imparare di più non solo la lingua ma la disciplina stessa. Sentivo che stavo imparando moltissimo e quando poco dopo mi sono ritrovata a studiare per preparare il terribile/temibile concorso ordinario ho fatto una scelta apparentemente folle, rivelatasi vincente, studiando biologia sul mio amato Curtis nella versione originale americana.

Vi starete ancora chiedendo dove voglio arrivare. Avete ragione…l’ho presa un po’ larga :-)

In questi anni ho continuato a coltivare questa mia passione per la lingua e l’avvento di internet (e di Amazon!) ha sicuramente accorciato le distanze e i tempi. Oggi possiamo leggere direttamente online le ricerche scientifiche e possiamo avere in pochi giorni qualunque libro. L’effetto WOW di quei giorni, quando mi ritrovavo persino ad annusare le pagine di quei libri tanto amati, oggi è incomprensibile ai più ma mi ha insegnato qualcosa di importante che ho sempre cercato di “passare” anche ai miei studenti. L’inglese non è solo una lingua importante per comunicare ma anche una strategia vincente per studiare.

In anni in cui l’acronimo CLIL doveva ancora essere persino immaginato, ho “costretto” i miei studenti a leggere testi e vedere filmati aiutandoli così ad entrare un po’ di più nelle pieghe delle cose, perché quando traduci o ascolti qualcuno parlare in un’altra lingua, sei così concentrato che il concetto rimane aggrappato nella tua mente.

E se si unisse l’inglese all’arte del colorare?

Unite un buon testo scientifico scritto in inglese a delle belle tavole da colorare e… vedrete comparire il libro di cui vi voglio parlare oggi: The biology coloring book” di Robert D. Griffin.

51jvlqer5rl-_sx360_bo1204203200_

Questo magnifico libro è proprio uno di quelli acquistati a Boston nella vacanza di cui vi ho parlato: 233 pagine di testo e tavole da colorare destinate a studenti universitari ma perfettamente adattabili anche per i ragazzi delle scuole superiori.

Questo libro tratta i contenuti di biologia del secondo anno delle superiori (dalle biomolecole alla genetica mendeliana). Ci hanno insegnato a non giudicare un libro dalla copertina, giusto? Nonostante sembri un libro per ragazzi la trattazione scientifica non è per nulla semplicistica, anzi aggiunge dettagli e concetti non presenti nei libri di testo tradizionali della scuola superiore. La sua forza sta proprio nell’abbinare un solido testo scientifico a delle tavole in bianco e nero da colorare man mano che si procede nella lettura.

Nonostante siano passati molti anni  io continuo ad utilizzarlo spesso. In questi giorni, ad esempio, stiamo lavorando sugli organuli cellulari. Per i ragazzi imparare struttura e funzioni degli organuli cellulari è sempre una inutile tortura. Tortura perché è una parte molto mnemonica, inutile perché dopo poco non ricordano più nulla.

Al momento sto procedendo così: in classe leggiamo e traduciamo insieme il testo e man mano i ragazzi colorano le strutture descritte. Eccone un esempio:

Clicca per vedere lo slideshow.

Perdita di tempo? Per niente. Biologia in inglese, tavole da colorare… l’apprendimento lavora su più fronti. È impossibile non imparare. :-)

P.S. Di recente ne ho acquisto altri due:

Se volete saperne di più fatemi sapere!

 


Viewing all 179 articles
Browse latest View live